Pisa, ottobre 1970
Discorso del Vincitore del Premio Galilei
La prima parola che devo pronunciare oggi è un sincero grazie per l’altissimo onore fattomi conferendomi questo Premio Internazionale, che viene attribuito oggi, se non sbaglio, per l’ottava volta ad uno studioso straniero che si sia occupato di argomenti riguardanti la storia della civiltà italiana, ma per la prima volta ad uno specialista di storia economica e sociale. Questo onore è da me tanto più apprezzato in quanto la commissione selettrice, che ha proposto il mio nome al Comitato organizzatore, era composta dagli studiosi più insigni che l’Italia conti per la storia economica: Gino Barbieri, dell’Università di Padova, Franco Borlandi di quella di Genova, Luigi de Rosa di quelle di Bari e di Pescara, e, last but not least, Federigo Melis di quelle di Pisa e di Firenze, tutti specialisti che godono di larga fama internazionale. La mia riconoscenza è tanto più viva in quanto, se sono il primo storico economista e sociale che figuri nella lista dei laureati del Premio Internazionale Galileo Galilei, sono stato preceduto da uomini di cui non ricorderò che quelli che ho conosciuto personalmente o la cui opera mi è familiare: Axel Boethius, il grande archeologo svedese, Hans Baron e Paul-Oskar Kristeller, tutti e due eminenti specialisti della storia delle idee, politiche per l’uno, filosofiche per l’altro, e miei ex-colleghi all’Università di Columbia a New York, o ancora Charles de Tolnay, l’illustre storico dell’arte che sono stato particolarmente felice di trovare tra i titolari del premio perché, come fiammingo, mi sono ricordato che egli si è occupato della storia dell’arte fiamminga quasi quanto di quella dell’arte italiana. Come per Tolnay, potrei dire che è l’interesse per le connessioni dei grandi problemi del passato nei diversi ambienti dello spazio storico-culturale che mi ha portato a lavorare e a scrivere sul passato economico e sociale dell’Italia, alla quale, in questo settore della storia come in qualsiasi altro, credo che si debba necessariamente attingere quando ci si interessi delle origini e delle forze di sviluppo non soltanto della civiltà europea, ma di quella che in uno dei miei libri ho creduto dover chiamare civiltà atlantica. Ben prima della mia nomina a direttore dell’Academia Belgica e dell’Istituto Storico belga di Roma dove ha la sua sede, ho incominciato ad interessarmi alla storia economica dell’Italia attraverso la storia delle scoperte e della colonizzazione, alla sua storia sociale attraverso la storia della schiavitù medievale, fenomeno dapprima generalmente europeo e poi soprattutto mediterraneo, sul quale la documentazione italiana è veramente enorme ed interessa tutto il Mediterraneo, dal Levante alla Spagna, dall’Europa bizantina all’Africa del Nord musulmana. Tutto questo ha inizio con le mie ricerche sulla storia della schiavitù medievale iniziate più di 35 anni or sono, quando ero un giovanissimo storico, che aveva ricevuto l’insegnamento indimenticabile di Henri Pirenne all’Università di Gand, alla quale ho l’onore di appartenere già da parecchio. Pirenne, ed i miei confratelli storici non mi contraddiranno, era allora non soltanto lo storico più illustre, ma anche il più umano, il più vivace che si trovasse in Europa. Avevo vinto quello che nel Belgio si chiama il concorso universitario, cioè una gara tra gli studenti che hanno sostenuto le tesi migliori nelle diverse università. La mia, diventata il mio primo libro, era uno studio di storia politica dell’alto medioevo fiammingo, ma vi si trattava di già, a dire il vero in un solo capitolo, di certe grandi vie commerciali italiane. Era bastato questo ad orientarmi verso il Mediterraneo, sia nelle mie ricerche che nei miei viaggi che esse rendevano necessari. Così nacque un amore per l’Europa meridionale che mia moglie, compagna non soltanto della mia vita, ma dei miei lavori, non cessò di dividere e che, ben prima che ci fissassimo a Roma 11 anni fa, ci portò un gran numero di volte in Ispagna, nel Portogallo ed in Italia. Quanti archivi abbiamo spogliato assieme, quante note abbiamo accumulato, ma quanto abbiamo amato pure la bellezza dell’arte e della natura in questi paesi del sole e soprattutto nel vostro! Ma ritorniamo al mio maestro Henni Pirenne e alla conversazione che ebbi con lui dopo il concorso universitario. Ero rimasto colpito dal fatto che si sapesse molto sulla semi-libertà nel medioevo, su ciò che gli storici di lingua francese chiamano il servaggio, ma nulla o quasi sull’assenza di libertà, sulla schiavitù nella medesima epoca, e dissi a Pirenne che avevo l’intenzione di iniziarne lo studio. Mi rispose che il soggetto era appassionante, ma che ne avrei avuto per tutta la vita. Diceva il vero, al punto che, dopo aver pubblicato un grossissimo volume sulla schiavitù medievale nell’ovest del Mediterraneo, ho continuato a consacrare alla schiavitù in altre regioni e specialmente in Italia, una serie di articoli, di cui alcuni sono persino dei piccoli volumi, da cui uscirà, come spero, un nuovo libro sulla schiavitù medievale in Italia e nell’Oriente cristiano. Lo studio della tratta e del reclutamento degli schiavi mi ha portato ad occuparmi delle colonie medievali italiane nel Mediterraneo orientale e nel Mar Nero, da dove proveniva una gran parte degli schiavi venduti nei paesi mediterranei, sia musulmani che cristiani. Sin dal 1947 ho pubblicato uno studio su “Schiavitù ed etnografia ai bordi del Mar Nero nei secoli XIII e XIV”, ove i mercanti genovesi erano stati operatori di importanza capitale. Poco tempo dopo studiavo il mondo variegato della colonia veneta di Tana, alla foce del Don, come centro della tratta degli schiavi nel XIV ed all’inizio del XV secolo, negli Studi in onore di Gino Luzzatto, il patriarca italiano degli studi di storia economica che mi aveva accolto con grande gentilezza a Venezia e mi aveva generosamente passato delle note preziose all’inizio delle mie ricerche in questo mare di meraviglie che sono gli archivi notarili dell’Archivio di Stato di Venezia. Nel frattempo avevo lavorato molto e pubblicato sulla storia della Spagna, in cui avevo trovato tanti mercanti italiani quanti nelle colonie del Levante. Lo stesso dicasi per il Portogallo. Constatavo che questi due paesi erano stati attratti nell’orbita del grande commercio internazionale da mercanti, da navigatori e da capitali italiani. Nel XIV secolo c’erano degli Italiani e soprattutto dei Genovesi e dei Lombardi, prima ancora che intervenissero i Toscani, in quasi tutti i centri commerciali importanti dell’Europa atlantica e generalmente fu appunto al loro seguito che gli Spagnoli e i Portoghesi vi erano penetrati. In Portogallo, il re Dionigi aveva assegnato il comando della sua flotta nel 1317 a Manuel Pessagno, grande mercante genovese, diventato ammiraglio e vassallo portoghese, ma specializzato anteriormente nel traffico con l’Inghilterra e la Fiandra. Questo Pessagno, secondo il contratto stipulato con il sovrano portoghese, doveva avere sempre venti capitani e piloti genovesi per comandare le navi portoghesi e cinque altri Pessagno gli successero nella sua carica sino all’epoca di Enrico il Navigatore. Uno dei loro capitani, Lanzarotto Malocello, scoperse le Canarie di cui si erano perdute le tracce dall’antichità e fu il primo impresario di colonizzazione nella zona atlantica a Lanzarote, l’isola a cui diede il nome, e a Gomera, ma egli ottenne queste due isole come Vassallo portoghese. Ho potuto ricostruire la carriera di questo esploratore e colonizzatore con l’aiuto di una documentazione internazionale molto complessa in cui la cartografia antica occupa un posto importante, ma sono stato ricompensato della mia fatica poiché ho potuto dimostrare che la colonizzazione portoghese ha avuto inizio per l’opera di un Italiano più di mezzo secolo prima della grande espansione a cui presiedette Enrico il Navigatore. Ciò non è piaciuto a tutti i miei amici portoghesi, ma i testi e i fatti esistono ed essi non possono negarli. Meglio ancora, o ancor peggio dal punto di vista di certi Portoghesi troppo strettamente nazionalisti: i piloti e i capitani genovesi dei Pessagno hanno pure scoperto l’arcipelago delle Madere e pure quello delle Azzorre, sebbene colà non vi si stata colonizzazione prima dell’epoca di Enrico il Navigatore. Tutti questi Italiani del XIV secolo, tra i quali mi sono occupato pure del ligure Nicoloso da Recco e del toscano Angelino del Tegghia, hanno avuto una parte importantissima nell’apertura delle prime rotte atlantiche, ma sempre al servizio del Portogallo. Del resto Enrico il Navigatore sapeva perfettamente quali servigi essi potessero rendere e tra i suoi collaboratori più efficienti figurano il veneziano Alvise da Mosto, meglio conosciuto come Ca’ da Mosto, ed il ligure Antonio da Noli, il primo mercante e scopritore dell’arcipelago del Capo Verde, il secondo mercante, navigatore ed imprenditore di colonizzazione come capitano-donatario a Santiago del Capo Verde durante più di trenta anni e sino all’epoca di Colombo. Ho potuto precisare la tecnica commerciale di Ca’ da Mosto e, al medesimo tempo, i metodi portoghesi all’inizio del commercio in Africa. Per Antonio da Noli ho potuto ricostruire tutta la sua carriera, mentre sino ad allora non era stato se non un nome, conosciuto da certe carte antiche in cui l’arcipelago del Capo Verde si chiamava “le isole di Antonio”. Ho potuto mostrare che egli aveva partecipato ai primi inizi del commercio di Guinea e dunque dell’oro e degli schiavi neri in concorrenza con il monopolio accordato da Alfonso V del Portogallo ad un gran mercante di Lisbona. Il fatto è che, da vero ligure, Antonio era molto astuto e desideroso di avere in mano il più gran numero possibile dei beni di questo mondo. Astuto lo era al punto che, dopo aver molto debolmente difeso Santiago contro gli Spagnoli, ed essere passato al loro servizio conservando la sua carica, riuscì a ritornar in grazia a Lisbona e a morire come un vero reuccio delle isole dopo una lunga carriera coloniale. Ampliando queste ricerche, mi ero messo a studiare, dal 1950, le influenze italiane nell’economia e la colonizzazione dei due paesi iberici dal XII al XVII secolo, influenze alle quali ho consacrato una lunga serie di lavori. Particolarmente interessato dal passaggio della colonizzazione medievale nel Levante a quella dell’epoca moderna nella zona atlantica, vedevo che i metodi applicati dai Veneziani nei loro possedimenti di Palestina dapprima, a Creta e a Cipro poi, oppure dai Genovesi nei loro possedimenti di Crimea e delle rive del Caucaso, erano trasmessi, spesso con l’aiuto di impresari di colonizzazione o uomini d’affari italiani, agli arcipelaghi atlantici prima, ai possedimenti americani di Spagna e del Portogallo poi. Vedevo che al momento in cui l’avanzata turca tagliava fuori dal Mar Nero i Genovesi, essi incominciavano a fare del commercio coloniale atlantico ed anche della colonizzazione sotto bandiera straniera. Seguivo gli uomini e talvolta i prodotti, come lo zucchero che ho seguito dalle piantagioni veneziane di Tiro nel XII secolo sino alle Antille ed al Brasile che raggiunse via Madera e Sao Tomé nel golfo di Guinea. Ovunque trovavo dei mercanti, dei colonizzatori o dei capitali italiani soprattutto nei periodi iniziali. Si può dire che il take off fu molto spesso opera loro. L’ho mostrato per le Canarie spagnole in un lavoro che ebbe la sua origine un una lezione tenuta a Roma nella cattedra del Presidente Fanfani. Mi sono interessato a Bartolomeo Perestrello di Piacenza, colonizzatore di Porto Santo nelle Madere nel XV secolo e suocero di Colombo, a Leonardo Lomellini, genovese e uomo d’affari del marchesato di Fernando Cortès nel Messico nel XVI secolo, e molto recentemente all’azione del capitalista fiorentino Luca Giraldi e di uno dei suoi figli nel Brasile. Occupandomi del trasferimento delle tecniche coloniali dal Mediterraneo all’Atlantico, il quadro cronologico e geografico delle mie ricerche si è esteso a poco a poco all’insieme dell’America e mi ha dato la chiave della mia concezione della civiltà occidentale in quanto civiltà atlantica. Alle origini di ciò che potrei chiamare l’atlantizzazione della cultura occidentale, gli Italiani si trovano presenti ovunque, si tratti, per non citarne che alcuni tra i più grandi, del ligure-veneziano diventato John Cabot in Inghilterra, oppure del toscano Verrazzano in Francia e soprattutto del più grande dei numerosi genovesi che servirono la Spagna: “A Castilla y a Leon Nuevo Mundo diò Colòn”. Ho incominciato ad occuparmi di Colombo per una questione che mi interessava vivamente e dal 1951 ho cercato di sapere, al Congresso di studi Colombiani a Genova, che parte egli avesse avuto nell’introduzione di influenze medievali nella colonizzazione dell’America. Poi mi sono interessato del personaggio in tutta la sua azione e in tutta la sua complessità di Italiano trapiantato in Ispagna e diventato cittadino del mondo, di un mondo che aveva allargato ancora di più di quanto non abbia mai saputo egli stesso. Frutto di tutto questo è stato un Kolumbus; Vision und Ausdauer apparso a Gottinga nel 1962, seguito l’anno stesso da una versione olandese all’Aia. Poi è apparso un lavoro più vasto, in collaborazione con il mio amico Florentino Perez Embid, titolare della cattedra di storia delle scoperte all’Università di Madrid, pubblicato nel 1967 ed intitolato Cristóbal Colón y el descubrimiento de América. Attualmente sto lavorando ad un Christophe Colomb. Essai d’analyse mentale richiestomi dalle Presses Universitaires de France a Parigi. Ho studiato Colombo come uno spirito medievale e come un uomo di azione moderno, impregnato del pragmatismo degli ambienti d’affari genovesi d’Italia, ma soprattutto di Spagna, in cui si univano il misticismo e l’ambizione sociale con la sete dell’oro, pur traendo dalla scienza del tempo delle conclusioni erronee che gli avrebbero fatto trovare l’America mentre cercava l’Asia. Ecco come è nata la parte della mia opera di storico che mi ha valso la lusinghiera distinzione che mi avete accordato. Oltre che dell’Italia, vi ho già detto che mi sono occupato della storia del Portogallo e della Spagna, ma sarebbe strano che uno storico belga non si fosse anche interessato del passato del proprio paese. L’ho fatto dall’alto medioevo sino al secolo XIX poiché ho consacrato dei libri alle origini della frontiera linguistica in Belgio, alla contea di Fiandra nell’XI secolo, agli imperatori belgi di Costantinopoli dopo la quarta crociata, alle carte urbane della Fiandra e penso di poter dire che con i miei allievi sono stato il fondatore della storia dei prezzi e salari in Belgio dal XIV al XIX secolo, storia alla quale abbiamo consacrato già tre grossi volumi di circa 2.000 pagine, mentre il quarto sarà pubblicato l’anno prossimo. In questi giorni è apparso alla Cornell University Press negli Stati Uniti il mio libro “The beginnings of modern colonization” nel quale ancora una volta gli Italiani hanno una parte molto importante. Se Dio mi dà vita, ciò accadrà pure per il volume su “L’Italie et le Levant chrétien” della mia storia sulla schiavitù nell’Europa medievale che procede bene e per un nuovo volume della mia Storia della civiltà atlantica, al quale sto dando la prima mano. Il punto di vista economico e sociale è sempre in primo piano nei miei lavori, ma ho sempre posto l’economico ed il sociale nel quadro generalmente umano del divenire storico nel suo insieme. Probabilmente è ciò che i miei colleghi italiani hanno voluto riconoscere proponendomi alla scelta del comitato organizzatore. Gliene sono tanto più riconoscente in quanto sono fermamente convinto che se la ricerca erudita è la base indispensabile della storia, una parte eguale del compito dello storico consiste nel porre il risultato delle sue ricerche nelle prospettive più vaste nelle quali i fatti che studia in dettaglio prendono il loro vero significato. E’ quello che mi sono sempre sforzato di fare e che spero di continuare a fare. Alla colazione in suo onore Charles Verlinden pronunziò le seguenti parole: Vi ho ringraziato poc’anzi per avermi designato per il Premio Galileo Galilei; vorrei ora congratularmi per il fatto di averlo istituito. Non perché, credetemi, ho avuto così l’occasione di riceverlo, ma perché, conferendogli lo scopo che ha, avete scelto di sostenere la cultura disinteressata in uno dei suoi aspetti più importanti. Disinteressato questo premio lo è tanto per quelli che l’hanno concepito quanto per quelli che lo ricevono. Coloro che l’hanno concepito non hanno voluto, come tanti fondatori di premi, laureare un romanzo od un’altra opera letteraria di grande mercato ed hanno evitato così di diventare facile strumento di editori. Coloro che lo ricevono sono degli studiosi e sanno perfettamente che la tiratura dei loro libri non aumenterà dopo che avranno ricevuto il premio, poiché le loro opere non sono né romanzi polizieschi, né delle novelle pornografiche e neppure semplicemente hanno quel tanto di scabroso da tener viva l’attenzione di un lettore già stanco e distratto prima di cominciare a leggere. Il denaro non ha veramente nulla a che vedere con questo premio e probabilmente è per questo che avete voluto consistesse in un’opera d’arte di un grande scultore italiano, contestato ufficialmente, ma, a mio parere, di un talento incontestabile. … Che questo premio voglia onorare la cultura in uno dei suoi aspetti più importanti, lo prova la scelta delle discipline i cui buoni servitori vuole ricompensare. Tutte queste discipline, anche se non ne portano il nome, hanno le preoccupazioni proprie ai differenti settori della storia. Ora che cos’è la storia se non la presa di coscienza da parte di un ambiente umano, e in questo caso quest’ambiente umano è una nazione, delle condizioni in cui è nato e cresciuto? Si può dire che senza la storia non esiste né popolo, né nazione, né comunità di nazioni, e neppure civiltà. So perfettamente che taluni dicono che la storia nutre il tradizionalismo e quasi quasi aggiungerebbero volentieri che la storia è reazionaria. Discorso tanto intelligente come quello che sostenesse che la memoria è reazionaria, poiché la storia è la memoria collettiva che le società umane hanno del loro passato e senza la quale è loro impossibile foggiare il loro avvenire. E per giunta il vostro premio evita di lodare quello che dei cattivi servitori di Clio possono fare quando si interessano della storia politica: cioè esaltare il nazionalismo. Anzitutto, se concerne il passato della civiltà italiana, non può essere ottenuto che da stranieri certo poco sospetti di nazionalismo, anche se, per le loro ricerche, siano persuasi che senza l’Italia la civiltà occidentale, o più esattamente la civiltà atlantica, non sarebbe quella che è. Poi se c’è una delle specialità che voi premiate che avete chiamata “storia italiana”, ne avete conferito il premio ad uno storico dell’umanesimo e, perché non ci si sbagliasse nell’avvenire, non l’avete chiamata “storia d’Italia”. Esempio ancora una volta di disinteresse e di preoccupazione per i più alti valori dello spirito. Tutto ciò fa del vostro Premio una distinzione che onora tanto coloro che l’hanno creata quanto coloro a cui viene attribuita. Auguro lunga vita al Premio Internazionale Galileo Galilei, sotto gli auspici congiunti della gloriosa Università di Pisa e dei Rotary d’Italia.