Pisa, ottobre 1977
Discorso del Vincitore del Premio Galilei
Le storie d’amore, di solito, cominciano in modo irrazionale, e la mia storia d’amore con l’Italia, con la musica e la cultura d’Italia e, soprattutto, con gl’Italiani, non fa eccezione.
Dopo per Venezia, dove arrivai alle cinque di una mattina ancora più fredda. Venezia, in quella stagione, sembrava tutt’altro che accogliente. Trovai una stanza che guardava su S. Marco, ma era fredda e umida. L’Archivio di Stato era tanto vasto che si rivelò impossibile trovare qualunque cosa che potesse essermi utile. La Biblioteca Marciana era buia, gli uomini e le donne dovevano usare tavoli diversi, e, in ogni caso, non conteneva la musica che mi serviva: probabilmente, era andata distrutta in uno dei disastrosi incendi del Settecento. E così, dopo un mese mi trasferii a Bologna, dove sapevo che la famosa biblioteca di Padre Martini conteneva musica interessante per la mia ricerca. Non era stato forse proprio da Padre Martini che il primo storico della musica inglese, Charles Burney, si era recato per i suoi studi sul madrigale, fra le altre cose?
Ebbene, lì cominciò la mia storia d’amore.
La mia stanza non era meno fredda, ma i miei compagni di studi erano cordiali.
Malgrado il mio italiano fosse stentato e sgrammaticato, comunicare non era molto difficile.
La gente era più che disposta a parlare con me.
La cucina, insolita per un inglese impacciato e abituato solo ai cibi più semplici, si rivelò ottima.
Il Lambrusco scioglieva la lingua a uno come me, cresciuto in tempo di guerra e che aveva assaggiato ben poco vino in vita sua.
Ben presto, feci amicizie che sono rimaste tali per quasi trent’anni e, spero, dureranno per il resto della mia vita. Uno di questi amici, è ora il prefetto della biblioteca di Padre Martini.
E’ così che cominciò la mia fissazione per l’Italia e tutto ciò che è italiano. Non passa un anno senza che mi rechi in Italia, sia pure per un breve periodo. E mia moglie e i miei figli sono quasi come me. Il libro sulla musica inglese del Cinquecento, ahimè, non è mai stato scritto. Al suo posto, sono apparsi gli studi sulla musica italiana di cui sapete. Spero, e credo, che il cambio non sia stato svantaggioso.
Si sa che questo tipo di ossessione non è raro fra gl’Inglesi. Anzi, di solito, gl’Inglesi amano o odiano l’Italia con una curiosa intensità. Alcuni la trovano quasi pericolosa: le inibizioni si allentano e il possibile effetto li spaventa. Ma sugli altri è proprio questo scioglimento della proverbiale “flemma” britannica che esercita un’attrazione. E’ difficile essere indifferenti. I nostri poeti sognavano l’Italia. Keats e Shelley, che desideravano una vita più libera di quella che potevano avere in patria, Byron, che scrisse alcuni fra i suoi versi più banali di fronte alla grandiosità delle Alpi, ma compose alcune liriche toccanti dopo averle attraversate. Shakespeare non venne mai in Italia, ma lui pure la sognava. “Il Mercante di Venezia”, “I due Gentiluomini di Verona”, “Romeo e Giulietta” non sono forse più italiani in spirito di quanto l’”Emilia di Liverpool” di Donizetti sia inglese o il “Macbeth” di Verdi sia scozzese, ma è evidente che la visione dell’Italia è l’origine dell’ispirazione. Nella musica, i legami non sono stati meno stretti, anche se di un tipo diverso. Non molti compositori inglesi sono stati qui per lunghi periodi. Lo ha fatto John Dowland nel sedicesimo secolo: egli conobbe Marenzio e Giovanni Croce, oltre a molti altri, e, tornato in Inghilterra, compose canzoni italiane, oltre che inglesi. Ai nostri giorni, William Walton è vissuto ad Ischia per una buona parte della sua vita, e ciò si riflette nella sua musica. Ma gli altri musicisti inglesi sono venuti per lo più come turisti, come ha fatto per esempio Edward Elgar.
Più spesso è avvenuto l’inverso. Musicisti italiani sono sempre stati i benvenuti in Inghilterra e molti vi hanno vissuto a lungo. La corte inglese faceva venire i suonatori di strumenti a fiato da Bassano, nel Cinquecento, e nel Seicento e agli inizi del Settecento i suoi violinisti erano spesso lombardi o piemontesi. Nell’Ottocento, i più grandi teatri dell’opera di Londra, il Covent Garden e Drury Lane, ospitarono un gran numero di cantanti e direttori d’orchestra italiani. Quando Verdi andò a Londra per la produzione de “I Masnadieri”, gli fu offerto un contratto di primo direttore d’orchestra al Her Majesty’s Theatre e in effetti per un momento sembrò che intendesse accettare, ma poi decise di tornare a Parigi e alla sua amata Giuseppina Strepponi.
Questo continuo afflusso d’Italiani ha avuto un profondo effetto sulla musica inglese. Nelle mie ricerche per la tesi sul compositore inglese, presto scoprii che lo stile italiano è alla base del madrigale inglese. Il titolo della più importante raccolta di madrigali italiani in Inghilterra era “Musica Transalpina” e il motivo del suo successo fu il suo carattere “transalpino”. Ai tempi di Purcell, le sonate di Corelli divennero di moda in Inghilterra e Purcell si trovò a comporre pezzi simili ad esse “in doverosa imitazione dei più famosi Maestri Italiani”. La sua opera “Didone ed Enea” culmina in un’aria appassionata che potrebbe senz’altro essere stata composta da Monteverdi o da Cavalli. Ma il caso più strano di tutti ha un’origine curiosa. Tutti i Tedeschi sanno che Georg Friedrich Händel era tedesco: non nacque forse ad Halle? D’altro canto, tutti gl’Inglesi sanno che George Frederich Händel era inglese: non aveva forse preso la cittadinanza inglese, divenendo un suddito di re Giorgio I? Tutti i musicisti sanno – o dovrebbero sapere – che Händel o Haendel era un musicista italiano. Non trascorse forse uno dei più importanti periodi della sua vita di compositore a Roma e Venezia? E non impiegò la sua vita, fin oltre i cinquant’anni a comporre opere italiane? E quasi tutte queste opere furono scritte per Londra, dove, malgrado lo scherno dei critici che avrebbero preferito composizioni “all’inglese”, ottennero un immenso successo di pubblico. Quindi, il compositore dell’Inghilterra del diciottesimo secolo che esercitò il più grande influsso era straniero sia per nascita che per ispirazione, e, come musicista, ritengo di poter affermare che il suo stile italianizzato è di gran lunga il più importante per l’effetto che ha avuto sulla musica inglese.
Nell’Ottocento. si deve ammettere, le cose cambiarono. La musica italiana affascinava il pubblico nei teatri, ma l’intelligentsia guardava ai compositori tedeschi. Nell’ultimo decennio del diciottesimo secolo, era Haydn a mietere grandi successi a Londra; vent’anni più tardi, la Philharmonic Society di Londra incaricava Beethoven di comporre una sinfonia; il compositore preferito della regina Vittoria era Mendelssohn e i musicisti inglesi che si recavano a studiare all’estero andavano a Lipsia, dove si poteva ascoltare musica da camera seria. Quando rinacque l’interesse per Bach, fu ben presto fondato a Londra un Bach Choir; e uno dei miei predecessori, Professore di Musica ad Oxford, il compositore Parry, fu seguace di Brahms.
Da allora, la Parigi di “Les Six” e di Stravinskij è stato uno dei centri esteri che più hanno attratto gl’Inglesi. Quando studiavo storia della musica, il mio professore non c’insegnava molto sulla musica italiana, o almeno non su quella successiva a Palestrina; da qui derivava la mia ignoranza, prima che andassi a Venezia, quel gennaio.
Eppure se si pensa agli ultimi cento anni, ci si rende conto che il pubblico ha sempre amato la musica italiana, e coloro che sono rimasti in disparte rispetto al mondo musicale londinese sono spesso stati quelli che ne apprezzavano il calore e l’umanità. Non dimentichiamo che di due grandi scrittori irlandesi, James Joyce era un appassionato dell’opera e George Bernard Shaw, che fu associato dei sostenitori dì Wagner ai tempi in cui era critico musicale a Londra, conosceva ed amava le opere dei grandi compositori dell’Ottocento. Più recentemente, un professore di musica di Cambridge, Edward Dent, ha prodotto un lavoro d’importanza fondamentale su Alessandro Scarlatti e un ingegnere delle poste, Frank Walker, ha portato un sostanziale contributo agli studi verdiani. Io sono vissuto a lungo in Irlanda, dove la gente ancora ama tutto ciò che è italiano: non sono mai vissuto a Londra: sono nato nell’Inghilterra del nord e sono rimasto un provinciale per tutta la vita. E’ questo, penso, che spiega perché l’Italia esercita su di me tanto fascino.
Spero che non sarò frainteso se dico che l’Italia è un paese provinciale. La sua storia non ha mai consentito che un’unica città la dominasse e questo, secondo me, è un fatto positivo. Parte della sua attrattiva consiste nella varietà del paese e della gente. Se Verdi o Puccini fossero stati inglesi, sarebbero vissuti a Londra o, almeno, in una località da cui Londra si potesse raggiungere molto facilmente. Invece, Verdi si rifugiò nella “terra sua”. Milano non gli piacque mai, Roma ancor meno ed era difficile convincerlo a lasciare Sant’Agata: Genova era la sola eccezione, ma solo in grazia del suo clima migliore. Puccini, il grande viaggiatore, preferì stabilirsi a Torre del Lago piuttosto che far parte dei circoli mondani della capitale. Le caratteristiche individuali di ciascuna zona sono a tutt’oggi ben distinte. Ora mi rendo conto di essere stato così bene a Bologna perché è una città che somiglia a Sheffield, la mia città natale: una grande città industriale, sicura di sé, con una università che non è tagliata fuori dalla vita degli abitanti. Pochi fra i Bolognesi che ho conosciuto hanno mai desiderato di vivere altrove, malgrado il caldo delle estati e il freddo degli inverni. Modena, che dista solo trentanove chilometri, è totalmente diversa, tranne forse che per la cucina; è ancora conscia del suo passato regale, ed è come se la sua vita fosse tuttora dominata dagli Estensi. Venezia, poi, dove si sono svolti per la maggior parte i miei studi negli ultimi venticinque anni, è addirittura quasi una nazione a parte anche oggi. Uno dei miei più cari amici veneziani si è rassegnato a lasciare la città solo quando non ne ha potuto fare a meno: egli è perfino andato in viaggio di nozze a Torcello.
Questo atteggiamento si riflette nella musica. Nel corso dei miei studi sul madrigale, ben presto ho scoperto che spesso le differenze sono regionali. Stili nettamente distinti fiorirono nelle due corti rivali degli Estensi a Ferrara e dei Gonzaga a Mantova, che pure erano così vicine e in contatto fra di loro. Il famoso compositore Gesualdo, che pure molto imparò da un musicista ferrarese, poteva essere solo un napoletano, Palestrina non poteva venire che da Roma.
Quando mi accinsi a scrivere un libro su Monteverdi, mi fu chiaro fin dall’inizio che la sua produzione, al pari di quella di tutti gli artisti che vivono a lungo, poteva venir divisa in tre periodi: gli anni della formazione, la maturità, e la più serena e filosofica vecchiaia. Solo quando visitai i luoghi in cui egli lavorò, mi resi conto che una divisione più valida sarebbe Cremona, Mantova e Venezia. La piacevole piccola comunità di Cremona, l’atmosfera riflessiva di Mantova e quella disinvolta, distaccata attitudine di Venezia erano state le forze che avevano foggiato un compositore che pure aveva una personalità molto forte.
Questo non sarebbe potuto accadere in Francia, dove la massima ambizione dell’artista è di vivere a Parigi, ed essere un provinciale è il suo peggior castigo. Può accadere in Gran Bretagna, nella misura in cui Scozzesi, Gallesi e Inglesi del Nord lottano coscientemente per conservare la loro identità, ma non con la naturalezza con cui ciò avviene in Italia. Ci sono, è vero, Italiani che deplorano questa frammentarietà della loro vita politica e culturale, ma per lo storico della musica questo è un segno di forza, ed ha certamente significato che qui la musica non ha perseguito falsi scopi. La figura del grande eroe, così tipica della cultura germanica, nell’insieme non si è imposta nell’arte italiana. Verdi, un formidabile patriota, ha però molto più a cuore l’individuo che non la grandezza del suo Paese. La sua arte, come quella di Monteverdi e di Rossini, come quella dei più grandi compositori di madrigali, romanze ed opere, più che degli uomini, parla dell’uomo. Pochi dei suoi personaggi sono dei puri o dei semplici; nessuno di essi è un simbolo, ma sono tutti esseri umani, che di solito soffrono, ma hanno anche momenti di grande gioia. Questo, ormai da lungo tempo, mi sembra tanto più utile di un’affermazione di principio per quanto saggia possa essere.
Questo valore dell’individuale è l’elemento che più mi attrae verso la musica italiana e gli Italiani. Mi rende felice il pensiero che Voi riteniate che ho contribuito alla comprensione della musica italiana. Comunque, la mia gioia più grande è stata di conoscere gente e fare amicizie, e spero di aver potuto in piccola parte ricambiare non solo la Vostra gentile e generosa ospitalità in questi giorni a Pisa, ma anche quella di tanti Italiani nel corso di tutti questi anni. L’anno scorso, mia moglie ed io abbiamo trascorso a Venezia una serata che è stata una grande esperienza umana. Il mio amico veneziano, quello che era andato in viaggio di nozze a Torcello, era, al tempo in cui lo conobbi, violoncellista nell’orchestra de La Fenice. Nel corso degli anni è stato la gentilezza fatta persona, ospitandoci varie volte nella sua casa, aiutandomi a tradurre conferenze che ho tenuto a Venezia, Siena e Roma e in vari altri modi. Egli non è mai venuto a trovarci in Inghilterra soprattutto, temo, perché pensava che la cucina inglese non sarebbe stata a lui confacente. Ma anche se non ci si vedeva per un anno o due, poi ci si incontrava in Piazza San Marco o al Bar al Teatro e immediatamente l’amicizia si ristabiliva. Spesso parlavamo della musica barocca e del Seicento e dopo qualche anno egli comperò una viola-da-gamba, uno dei primi Italiani a farlo in tempi moderni. Voleva un maestro, ed io gli suggerii di studiare con uno dei più famosi suonatori contemporanei, August Wenzinger. Quando tornò era entusiasta e quasi non riusciva a pensare ad altro che alla viola-da-gamba e io gli mandavo libri e facsimili di musica antica. Dopo alcuni anni, egli lasciò il suo posto a La Fenice e cominciò a insegnare viola a Verona, ma, purtroppo, non molto dopo è morto, poco più di due anni fa. L’anno scorso, eravamo nel chiostro di San Giorgio Maggiore, ora occupato dalla Fondazione Cini, quando vedemmo la sua vedova, che ci disse in tono concitato: “Wenzinger è a Venezia, venite al suo concerto, stasera”. Noi ci andammo e poi andammo a casa sua, dove trovammo numerosi allievi di suo marito, giovani uomini e donne pieni d’entusiasmo e alcuni di essi suonavano sul loro strumento riscoperto da poco musiche di Inglesi e d’Italiani, e suonavano molto bene. Si può guardare al futuro con speranza quando si vedono questi giovani che con la loro dedizione al bene e al bello e la loro volontà continueranno a tenere vivi quei valori umani per cui sono famose l’Italia e l’Inghilterra. Perciò mi ha reso così felice il vedere di aver in piccola misura contribuito non solo agli studi ma anche alla ricchezza musicale della mia seconda patria. Mi sia permesso di unire la mia voce a quella del grande studioso Alfred Einstein, che certamente avreste onorato conferendogli questo splendido Premio Galileo Galilei, se esso fosse esistito ai suoi tempi, nel chiedere che mi si perdonino le mie deficienze nel capire varie cose della cultura che per un italiano sarebbero ovvie. Nella prefazione del suo grande libro, egli citò le parole di Stendhal: “Nessun viaggiatore dovrebbe ritenere di conoscere veramente la letteratura di un paese”; e continua: “Ma forse io posso dire che spero di essere stato più di un semplice viaggiatore, in Italia”.
Questa speranza e anche mia: e la vostra gentilezza nel conferirmi questo onore, mi incoraggia a credere che sia fondata.