Pisa, ottobre 1997
Discorso del Vincitore del Premio Galilei
Era mattina presto a Los Angeles quando ho ricevuto la telefonata del Professor Bolelli che mi annunciava che mi era stato assegnato il Premio Galileo Galilei. Spero di essere stato in grado di esprimergli adeguatamente la gioia che ho provato nel ricevere la notizia, anche se non ne sono del tutto sicuro, dato che in quel momento ero convinto di star sempre dormendo e che presto mi sarei svegliato scoprendo così che era stato solo un sogno! Ma certe volte la realtà si rivela di gran lunga migliore perfino dei sogni. Sono molto felice di essere qui oggi e di avere questa occasione per ringraziare ancora una volta il Professor Bolelli e per esternare a lui, agli altri membri della giuria e a tutti voi che rappresentate i Rotary Club d’Italia la mia sentita gratitudine per essere stato scelto per ricevere questo grande onore. Altri studiosi prima di me si sono qui presentati per esprimervi la loro riconoscenza per essere stati da voi così ricompensati per il lavoro compiuto. Io mi associo a loro nell’esternarvi il profondo senso di gratitudine per un così importante riconoscimento per la mia attività di ricerca. Noi studiosi, per la maggior parte, ci dedichiamo alla ricerca perché amiamo il nostro campo di studi e perché se non lo facessimo ci sarebbe un grande vuoto nelle nostre vite. Siamo felici nel perseguire le nostre ricerche ed esperimenti, nel valutarne i risultati, nel cercare di esprimere al meglio le nostre idee, e nel collaborare produttivamente con i nostri colleghi e studenti. Alcuni di noi, tra cui includo me stesso, persistono nell’applicare metodologie tradizionali d’indagine e interpretazioni spassionate, anche se i cambiamenti delle ideologie – che alcuni definirebbero effimere – mettono in discussione e talvolta anche ostacolano i più tradizionali fini della ricerca, della raccolta, analisi e interpretazione che in passato hanno creato le fondamenta della nostra area di studio e che continuano ad essere validi per così tanti di noi. Se, alla fine dei nostri studi, ci rendiamo conto che siamo riusciti ad esprimere le nostre idee e che queste sono state accettate come valide dai nostri colleghi, allora ci è data la soddisfazione di sapere che abbiamo in qualche modo contribuito all’avanzamento del nostro campo di studi, e forse, anche se in piccolissima misura, all’arricchimento culturale dell’umanità. Generalmente non ci aspettiamo – e nemmeno riceviamo – molti riconoscimenti per il nostro lavoro da coloro al di fuori del nostro specifico campo di ricerca. Così, sapere che ciò che facciamo viene apprezzato, e soprattutto sapere in quale misura viene apprezzato grazie all’assegnazione di un riconoscimento prestigioso come il Premio Galileo Galilei, è senza dubbio uno dei più grandi onori che uno studioso può immaginare di ricevere. Per questo io vi sono profondamente e sinceramente grato. Quando rifletto su ciò che è successo da quando ho iniziato la mia carriera come musicologo, mi rendo conto di quanto io sia stato fortunato ad aver scelto la mia specifica area di studi ed ad aver iniziato a lavorarvi proprio in quel periodo e luogo. La musica antica, come è stata in seguito chiamata, e in particolare la musica italiana del Medioevo, del Rinascimento e del Barocco” target=”blank_”>Barocco, non era sconosciuta del tutto negli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale. Alla fine degli anni quaranta alcuni specialisti avevano già portato alla luce una gran quantità di informazioni riguardo a molti personaggi chiave della storia della musica in Italia – parlerò qui infatti solo dell’Italia – ed erano già stati pubblicati molti studi fondamentali su vari istituzioni e centri dove la musica si era sviluppata. Erano accessibili edizioni complete delle opere di Palestrina, Monteverdi e Corelli, e così anche un’infinità di lavori di altri compositori editi in un gran numero di collezioni antologiche; molti dei tesori conservati nelle più importanti biblioteche italiane erano conosciuti grazie ai cataloghi redatti dall’Associazione dei Musicologi Italiani e in particolare grazie al lavoro di Gaetano Gaspari a Bologna; studi validissimi, basati su fonti originali, (alcuni di questi pubblicati già alla fine del diciannovesimo secolo) si erano affermati grazie alle indagini di Raffaele Casimiri e dei suoi collaboratori. La rivista Note d’Archivio, diretta da Casimiri, con la sua enfasi sui musicisti e sulle esecuzioni musicali nelle chiese dell’intera penisola, rimane a tutt’oggi brillante esempio di questo genere di studi. Ma la parte più sostanziosa della sopravvissuta musica dei periodi precedenti – in Italia come altrove in Europa – rimaneva in larga misura irraggiungibile, spesso inadeguatamente catalogata, e talvolta non catalogata affatto, nota solo a pochi specialisti, e nella quasi totalità inaccessibile ai musicisti che avrebbero potuto riportarla in vita e agli studiosi che avrebbero potuto stimarne il valore culturale e musicale. La situazione cominciò a cambiare agli inizi degli anni cinquanta, quando specialisti cominciarono a lavorare sistematicamente a vari aspetti della musica antica e a rivelare ciò che fino ad allora si era potuto soltanto immaginare. Ciò accadeva sia in Italia che nel resto d’Europa, e anche negli Stati Uniti dove la musicologia, recentemente importata dall’Europa, aveva appena iniziato ad affermarsi a livello di Dottorato di Ricerca nelle università. Musicologi, come Gustave Reese, Knud Jeppesen, e Friedrich Blume – qui mi limito a citare tre dei più grandi che si sono dedicati alla musica antica – avevano appena pubblicato o stavano per pubblicare lavori fondamentali mentre altri studiosi, come Edward Lowinsky, Nino Pirrotta e Oliver Strunk, si dedicavano alla carriera dell’insegnamento, i cui risultati, grazie ai loro studi e alle loro pubblicazioni, contribuivano a dare a questo campo di studi la forma che avrebbe in seguito preso. Claudio Sartori, che lavorava praticamente da solo a Milano, aveva già iniziato i suoi importanti contributi bibliografici, e Armen Carapeyan, dapprima dall’America ma in seguito soprattutto dall’Italia, aveva iniziato la sua originale impresa di rendere accessibili in edizione moderna tutte le opere dei compositori medievali e rinascimentali e tutti i generi musicali risalenti a questi due periodi. Come vi ho accennato, ciò avveniva in tutta Europa, ma soprattutto in Italia. La ricca e ininterrotta tradizione in Italia di musica polifonica e della sua esecuzione, il suo altissimo numero di musicisti e teorici della musica – molti di loro di eccezionale importanza -, i suoi leggendari editori di musica, la sua ineguagliabile ricchezza di collezioni musicali, sia in forma manoscritta che a stampa, le sue incomparabili fonti iconografiche, tutto ciò stimolava l’interesse dello studioso in quanto forniva, e continua tuttora a fornire, una fonte inesauribile di materiali che ci permettono di studiare a fondo i tesori e i segreti del passato. Dalla metà degli anni cinquanta, quando la musicologia cominciò ad espandersi nelle università americane ed ad attirare giovani studiosi, l’Italia o la storia della musica italiana, in particolare quella antica, costituirono un’attrazione irresistibile per molti di noi americani che stavamo proprio allora iniziando a conoscere le tradizioni e i risultati ottenuti dalla musicologia europea. Suppongo che potrei affermare che le mie origini familiari e le lezioni di musica che ricevetti da bambino mi hanno predisposto a diventare un musicologo la cui attività di ricerca sarebbe stata tutta dedicata alla musica e alla cultura italiana. Ma ciò costituirebbe soltanto una parte della verità, in quanto sono giunto a questa scelta professionale e di interessi attraverso una serie di circostanze, alcune del tutto casuali ma altre no. La mia passione per tutte le cose italiane si sviluppò con naturalezza, dato che la mia famiglia era tutta di origine italiana. Mio padre, che era giunto in America da giovane con l’intenzione di girare un po’ il mondo prima di sistemarsi definitivamente, vi incontrò un’americana di origine italiana e non se ne andò più. Da bambini, mia sorella ed io non parlavamo affatto italiano – non era la lingua di mia madre – e l’avrei imparato solo più tardi. Ma certamente conoscevamo l’arte italiana, la sua letteratura, la cucina, e soprattutto, la sua musica. Ed era perfettamente naturale, suppongo, che imparassimo a suonare il pianoforte che troneggiava nel salotto di mio nonno. Ma al di fuori di questo, la mia educazione iniziale fu completamente americana, con la solita infarinatura di lingue – latino e francese -, matematica, storia e letteratura, che costituiva il programma di studi degli studenti che si sarebbero poi avviati all’università. Quando arrivò per me il momento di entrarvi, dato che la musica era il mio primo e unico amore, decisi di iscrivermi ad un corso di laurea in arte musicale, non in musicologia. Allora non avevo idea di che cosa fosse la musicologia, e dubito molto che in una qualsiasi università americana la musicologia venisse offerta in un corso che non fosse di specializzazione, anche se vi erano molti dipartimenti che offrivano corsi di laurea in arte musicale. Così iniziai la mia carriera, come molti musicologi americani della mia generazione, come musicista – ero pianista con un po’ di talento e con una predilezione particolare per il jazz e la musica popolare, anche se tutta la mia educazione musicale si concentrava sul repertorio classico. Volevo diventare o pianista di professione o insegnante di piano, o magari tutti e due. Prima mi iscrissi al New England Conservatory of Music, ma in seguito passai alla Boston University, dove ricevetti sia la laurea di Bachelor che il Master. Qui seguii i miei primi corsi di storia e teoria musicale con Henry Kaufmann, corsi che mi fecero scoprire la ricchezza della musica del periodo allora detto “della pratica comune”, e cioè la musica dall’età di Bach fino agli inizi del ventesimo secolo. In seguito fui accettato nel programma di studi musicali superiori all’Harvard University, dove ricevetti sia la laurea di Master of Arts che il Ph. D. Fu durante questi anni, seguendo corsi di paleografia musicale con A. Tillman Merritt, di musica medievale e rinascimentale e di musica corale occidentale, che imparai veramente a conoscere quella che in seguito fu indicata come musica antica. Fu un’esperienza indimenticabile! Essere capace di leggere quella musica nella sua notazione manoscritta originale, di trascriverla nella notazione moderna, di tentare – come noi studenti anche facemmo – di eseguirla dal vivo! E poter conoscere quali erano stati gli stili musicali che avevano allietato l’udito ma anche gli animi delle popolazioni europee dall’undicesimo secolo in poi, e tutto questo mentre ci rendevamo conto di quanto ancora rimaneva sconosciuto, nonostante le già monumentali bibliografie di studi e di edizioni. Quando mi fu chiaro che potevo dedicarmi allo studio della storia e della cultura senza dover per questo abbandonare la musica, tutti i miei piani per il futuro cambiarono completamente. La musica popolare mi perse allora per sempre. Ad Harvard, dopo aver finito i corsi e gli esami preliminari, mi venne assegnata la borsa di studio John Knewles Paine per l’anno accademico 1957-58. Se ricordo bene, l’unico obbligo per il prescelto era quello di viaggiare. Mi sembrò dunque perfettamente naturale andare in Italia, soprattutto dato che in quel momento mi interessavo dell’attività di Don Paolo Tenorista, un tardo rappresentante dell’Ars Nova italiana, uno dei cui lavori, ve lo devo confessare, è la messa in musica di un testo che celebra la cattura nel 1406 da parte dei fiorentini di Pisa, dal titolo “Godi Firenze”. A parte la data della composizione e il fatto che Don Paolo era un abate fiorentino che aveva fatto parte dell’entourage di un potente cardinale della famiglia degli Acciaioli, si sapeva pochissimo sul suo conto. Ciò che sapevo riguardo alla sua opera – precedentemente avevo trascritto alcuni suoi lavori ed avevo ricevuto consigli preziosi su come interpretare le difficoltà del suo sistema di notazione da parte di Nino Pirrotta, a quel tempo visiting scholar alla Princeton University e che aveva già scritto su Don Paolo – mi convinse che questo era un compositore la cui opera meritava di essere indagata. La mia ragione ufficiale per andare a Firenze era di lavorare direttamente su alcuni manoscritti musicali e di iniziare un’analisi comparata dei lavori di Don Paolo con il proposito di evidenziare il loro ruolo nello sviluppo della polifonia nel Trecento. Non rimasi su questo progetto originario per molto tempo, comunque, perché poco dopo il mio arrivo una mia amica, Anne Marie Bragard, mi portò all’Archivio di Stato e all’Archivio dell’Opera del Duomo dove la Dea Fortuna, come un uomo del Rinascimento avrebbe detto, mi sorrise. Fui affascinato dalla vista di tutti quei documenti, testimonianze di un tempo lontano, da coloro che si dedicavano al trascriverli e dai loro eccitati commenti su ciò che facevano o su ciò che avevano appena trovato. Fui particolarmente colpito nel rendermi conto che, nonostante secoli di ricerca già compiuta, ci fossero ancora così tante informazioni sepolte negli archivi, pronte per essere scoperte e portate alla luce. E quando per la prima volta tenni in mano un documento scritto cinquecento anni prima e provai l’emozione di essere capace di decifrarlo quasi tutto, fui completamente irretito dal fascino della ricerca d’archivio. Riflettendo poi sulla musica fiorentina e sui musicisti del periodo medievale e di quello rinascimentale, su ciò che era ancora sconosciuto su di loro e sulle domande che non erano ancora state non solo poste, ma nemmeno immaginate, sulla loro opera – la vita e l’opera di Don Paolo erano in un certo senso emblematiche – capii che avevo bisogno di cominciare a lavorare su documenti originali. Ma che cosa cercarvi e soprattutto dove iniziare a cercare? Frequentando gli archivi e facendo attenzione ai tipi di documentazione su cui gli altri studiosi stavano lavorando mi resi conto che anche i documenti relativi alla vita quotidiana potevano fornire importanti informazioni sui musicisti, sulla loro preparazione, sulle influenze che avevano determinato la loro formazione, e forse anche sui repertori musicali a loro disposizione e sulle loro pratiche di esecuzione. Per documenti di vita quotidiana intendo le raccolte che contengono la documentazione relativa alle decisioni prese dalle autorità sia pubbliche che religiose riguardo alle istituzioni sotto il loro controllo, i registri di pagamenti con indicati i nomi di coloro che erano al servizio di quelle suddette istituzioni, gli elenchi del Catasto (una vasta attività di indagine veniva portata a termine proprio in quegli anni al Catasto di Firenze), i registri di battesimo, di matrimonio, in breve cioè qualunque tipo di documentazione che può aiutarci ad espandere la nostra conoscenza del ruolo della musica nella vita sociale e religiosa di quei tempi. Quando confidai il mio nuovo argomento di ricerca – scoprire cioè quanto più mi era possibile sulla musica fiorentina e sui musicisti del Tre e del Quattrocento cercando materiale a questo riguardo negli archivi – a un ben intenzionato studioso fiorentino della generazione precedente, il suo sincero consiglio fu di non sprecare il mio tempo. Mi disse che lui stesso aveva cercato invano tali documenti e che era giunto alla conclusione che ai Fiorentini, che nel corso dei secoli si erano sempre dimostrati così preoccupati di mantenere viva la fama dei loro letterati e artisti, non era mai importato abbastanza dei musicisti per occuparsi di loro. Ma decisi di persistere e in pochi mesi avevo fatto scoperte promettenti – e per me molto significative – mentre cominciavo a delineare non soltanto le caratteristiche dell’attività dei musicisti originari del nord Europa e che si erano trasferiti a Firenze e in altre località italiane, ma anche a sciogliere la complicata trama che circondava i musicisti fiorentini degli anni prima e dopo il periodo di Lorenzo il Magnifico. Quando scrissi ai miei professori ad Harvard del mio nuovo argomento d’indagine e chiesi loro un secondo anno di borsa di studio per continuare le ricerche, non avevo idea di che cosa aspettarmi. Ma la borsa di studio mi fu rinnovata per un altro anno, e in seguito un mio professore mi confidò che i membri della commissione accademica avevano approvato il mio progetto di studio, insolito in quanto implicava ricerca d’archivio, proprio perché sapevano che io ero un bravo musicista! I risultati di questi due anni di lavoro intenso furono presentati nella mia tesi di dottorato, del 1960. E’ in due volumi, il primo contiene i nomi e la storia dei cantori che avevano cantato nella Cattedrale e nel Battistero di Firenze nel Quattrocento insieme ad un’analisi delle caratteristiche delle loro esecuzioni musicali. Il secondo volume consiste di un’appendice che contiene le trascrizioni di più di 800 documenti che costituivano la base archivistica del primo volume. Fui molto fortunato perché Nino Pirrotta era venuto allora ad insegnare ad Harvard ed io avevo potuto così usufruire sia del suo incoraggiamento che dei suoi consigli durante la stesura della tesi. Non ho mai dimenticato l’esempio che lui ha costituito per me e che mi ha guidato nella mia attività accademica da allora ad oggi. La mia tesi di dottorato fu, per quanto ne so, il primo lavoro d’archivio sulla musica e sui musicisti portato a termine in un’università americana, anche se molti altri sono comparsi da allora in poi. Sottolineo questo fatto non tanto perché io sia orgoglioso di essere stato all’avanguardia di questo metodo di ricerca nel campo della musicologia, ma perché sono felice di poter esprimere la mia riconoscenza verso coloro che mi hanno incoraggiato a perseguire le mie ricerche, e, come diretto risultato di ciò, a delineare quell’area di studi che è diventata il campo di lavoro di tutta la mia vita. Sono molto grato anche ai miei molti amici italiani, specialmente Gino Corti, mio costante compagno d’armi negli archivi, che mi hanno aiutato e mi hanno continuato ad aiutare in svariati modi, al personale degli archivi e delle biblioteche, sia pubbliche che private, che si è dimostrato sempre sollecito nei confronti delle mie richieste, e a quei professori del dipartimento di musica di Harvard per aver voluto, così tanto tempo fa, incoraggiare una tesi basata su una nuova tipologia di ricerca mentre allo stesso tempo continuavano a sostenere metodi di ricerca più tradizionali nel campo della musica e della musicologia. Il loro esempio costituisce un modello importante per i docenti delle università odierne.