Pisa, ottobre 2007
Discorso del Vincitore del Premio Galilei
Grazie, grazie di cuore per il Premio Galilei! E “grazie” è la parola centrale del mio breve discorso, in cui vorrei raccontare come si è sviluppato il mio rapporto con la cultura italiana; un rapporto che posso definire molto stretto, senza tuttavia credere di avere per questo meritato il Premio Galilei. Ho conosciuto tardi la cultura italiana. Nello studio del pianoforte, incominciato a sette anni, la musica italiana non aveva alcuna importanza, a eccezione di pochi pezzi di Muzio Clementi. E quando eseguivo con mio padre le sonate per violino di Corelli e di Haendel, le sonate dell’Italiano mi sembravano di molto inferiori. Doveva essere all’incirca il 1948, avevo sedici anni, quando ascoltai “La traviata” di Verdi al teatro di Dessau, probabilmente in un’esecuzione scadente, ma scadente mi era apparsa la musica stessa. Strano, avrei dovuto notarne e ammirarne almeno alcuni momenti belli! Ma i miei unici dèi erano Mozart, Beethoven e Bach, al cui confronto nulla, ai miei occhi, poteva reggere. Sarebbe stato poi diverso, tuttavia non a scapito dei suddetti, di cui allora non immaginavo quanto – Mozart per primo – avessero preso dalla musica italiana. Ora, con lo sguardo proiettato per un momento al di là della musica, vorrei dire che mi sono sviluppato in generale molto lentamente. Una certa apertura, nella musica, prese avvio negli anni Cinquanta, durante il mio studio a Berlino. Ed era adesso in particolare l’opera italiana che mi entusiasmava, l’opera dell’Ottocento (soltanto più tardi imparai a conoscere le opere più antiche). A Berlino venivano rappresentate molte opere italiane, specialmente Verdi, sia all’Ovest che all’Est, e allora il muro ancora non c’era. Da Berlino mi trasferii all’Università di Kiel. Come prima, le mie materie di studio erano musicologia, filosofia e letteratura tedesca. Qui mi trovai proprio al posto giusto per quanto concerne la musica, sia con Friedrich Blume, sia con Anna Amalie Albert, che tramite i suoi libri su Schuetz e Monteverdi si era qualificata come esperta delle relazioni stilistiche tra Italia e Germania. Entrambi, lei e Friedrich Blume, erano stati allievi di Hermann Albert, che all’inizio del XX secolo aveva aperto nuove prospettive di ricerca nel campo dell’opera italiana. Sia qui ricordato il suo libro su Jommelli, ma in maniera particolare la grande monografia mozartiana, in cui venne dimostrato il forte radicamento di Mozart nell’opera italiana del suo secolo. Ancora oggi i due grandi capitoli sull’opera seria e sull’opera buffa si leggono con assoluto vantaggio. Almeno a partire da Shuetz, poi da Haendel – e questo mi fu veramente chiaro nei seminari di Anna Amalie Abert – l’Italia ha di certo ricoperto un ruolo di primo piano per la musica tedesca. La musica italiana, in parte suonata e cantata da artisti italiani, risuonava nelle corti dei principi tedeschi, e i maggiori compositori tedeschi – J. S. Bach escluso – si recarono in Italia per ascoltare e studiare alla fonte questa musica. Haendel lo fece all’inizio del Settecento, Johan Christian Bach, Hasse e Gluck dopo di lui, solo per citare i più grandi. Questi tre hanno per loro parte arricchito la musica italiana, nell’opera e nella cantata, con preziose composizioni – si trattò di un fruttuoso dare ed avere. Con Mozart venne poi il più grande di tutti. Egli imparò dalla moderna musica operistica italiana degli anni intorno al 1770 – in che misura, ho cercato di dimostrarlo molto più tardi in varie pubblicazioni – e scrisse opere serie per il Teatro Ducale di Milano . Nella sua musica Mozart parlò italiano; anche più avanti, continuò a parlarlo, sebbene nell’imcomparabile ricchezza e profondità del suo talento. Il primo ricercatore tedesco a mettere in evidenza questi aspetti è stato Hermann Abert. I suoi allievi, la figlia Anna Amalie, Blume, Gerber e altri, ne seguirono le orme. Incominciai a penetrare con maggiore profondità anche nell’essenza dell’opera italiana dell’Ottocento. Qui si trattava di riconoscere la particolarità della via italiana, l’alterità del romanticismo italiano tra Bellini e Verdi rispetto a quello tedesco nel senso di Weber o Schumann. Anna Amalie Abert mi assegnò come tema di dottorato Vincenzo Bellini, che io fino ad allora conoscevo solo per nome. Ora mi calai nello studio delle sue opere. Ma prima di parlare di questo, vorrei dire qualche parola sul mio rapporto in generale con la cultura italiana di quegli anni (vorrei infatti parlarvi non soltanto di ricerche, ma della mia esperienza della cultura italiana, che dopo un primo approccio man mano si trasformò in una conoscenza più profonda). Accanto alla musicologia, alla germanistica e alla filosofia, mi occupavo anche della cultura francese e in particolare dell’italiana. Ascoltavo lezioni di storia dell’arte, e anche più di romanistica (da August Buck e Hermann Gmelin). Ciò giovò alla mia lettura della grande letteratura italiana, anzitutto Dante e Manzoni. Leggevo allora in traduzione tedesca. Iniziarono gli studi della lingua, ma sulle prime non diedero grandi risultati. La lirica italiana mi era ancora preclusa – imparai ad amare Leopardi solo molto più tardi. Un passo decisivo fu un mio prolungato soggiorno a Napoli nella primavera del 1959, reso possibile grazie al finanziamento della Deutsche Studienstiftung. A Napoli studiai nella ricchissima biblioteca del Conservatorio. Il mio scopo era quello di analizzare Bellini non in maniera isolata, ma nel contesto dei suoi predecessori e contemporanei. Ciò significava, oltre all’indagine filologica sugli autografi del Catanese, ovviamente necessaria, anche l’osservazione precisa delle opere del passaggio tra la fine del Sette e l’inizio dell’Ottocento, specialmente nelle opere di Mayr e Zingarelli, poi dei lavori di Rossigni, Donizetti, Pacini e altri. Un ricco programma, che mi teneva sul filo. Tuttavia rimaneva tempo anche per altre cose. Mi immersi nell’atmosfera della Napoli del tempo, allora non ancora così caotica. Mi aggiravo nei dintorni della città, in particolare nei Campi Flegrei, che non soffrivano ancora così tanto il traffico e gli scempi edilizi. Mi capitavano inoltre incontri umani molto belli, incontri con persone molto colte, ma anche con gente semplice. Feci buoni progressi con la lingua italiana, non senza qualche difficoltà causata dal dialetto napoletano. Ma ero in ballo e dovevo ballare. Le arti figurative e l’architettura mi si disvelarono, sebbene mi mancasse ancora qualcosa nella comprensione, quando poi venni a Roma qualche tempo dopo. Mi fece un’impressione speciale l’incontro con l’antichità, sia nel Museo Archeologico, sia a Pompei, o a Ercolano. Ero felice, e potei capire il detto di Goethe: chi ha visto Roma e Napoli, non può più veramente essere infelice. Roma la conobbi soltanto più tardi. Dapprima seguii le tracce di Goethe a Napoli, ed ero contento come il giovane Mozart, che da Napoli aveva comunicato felicemente a Salisburgo: “Ora ho viaggiato anche sul mar mediterraneo”. Il soggiorno napoletano era stato così utile alle mie ricerche, che dopo il mio rientro in Germania potei scrivere la mia dissertazione abbastanza velocemente per poi conseguire il titolo di dottorato. La dissertazione apparve stampata sette anni dopo, con il titolo “Vincenzo Bellini und die italienische Opera seria seiner Zeit”. Nel 1981 il lavoro fu poi pubblicato in italiano, in versione leggermente riveduta. I miei primi saggi pubblicati riguardavano Rossigni, Donizetti e Pacini – e naturalmente Bellini. Per lui e la sua patria isola, la Sicilia , che da allora ho visitato spesso, ho mantenuto una forte inclinazione. Nel frattempo avevo sposato la storica dell’arte Gudrun Schuppa. Nella considerazione delle arti figurative, in particolare dell’Italia, devo molto al suo vasto sapere e al suo sguardo lucido. Ritornai – con lei – in Italia a partire dal 1964, quando divenni direttore della Sezione di Storia della musica dell’Istituto Storico Germanico di Roma. Questa era stata fondata nel 1960 con lo scopo di compiere ricerche sulle relazioni italo-tedesche nella storia della musica. Andai al lavoro. Gli inizi furono tuttavia modesti. Al momento del mio arrivo a Roma, la biblioteca di musicologia possedeva soltanto qualcosa come 3000 volumi. Questo numero man mano si moltiplicava per dieci e per venti, tanto che la biblioteca oggi può essere considerata una delle migliori biblioteche musicologiche in Italia ed essere utilizzata da un pubblico internazionale, ma soprattutto – il che mi fa particolarmente piacere – da studenti e colleghi italiani. Vennero gettati dei ponti anche in altre direzioni, ad esempio tramite dei colloqui italo-tedeschi, che ebbero luogo a partire dal 1966, con cadenza di circa 3 anni. Nonostante alcuni problemi linguistici, dovuti al fatto che di certo non tutto poteva essere tradotto, i colloqui romani, almeno penso, furono fruttuosi per entrambe le parti. Negli “Analecta musicologia”, la collana editoriale da me diretta, videro la luce allo stesso modo contributi italiani e tedeschi, a cui andarono ad aggiungersi contributi provenienti dall’Inghilterra e dagli USA. La Sezione di Storia della musica crebbe così di concerto con la musicologia italiana, che nei decenni dopo il 1960, sospinta da una giovane generazione, attraversava anche da parte sua un periodo di rapido sviluppo. Ne erano tuttavia partecipi anche eccellenti studiosi più anziani, tra i quali vorrei ricordare in particolare Nino Pirrotta e Fedele D’Amico, alla cui amicizia sono ancora oggi molto grato. Altri legami di amicizia hanno accompagnato finora la mia vita. Ciò vale specialmente per Agostino Ziino, Franco Piperno e Alberto Basso, ma anche per alcuni altri. Sono felice che Agostino Ziino e Franco Piperno siano oggi tra noi. All’inizio degli anni ’70 fornii un supplemento ai lavori che avevo fin lì svolto sull’Ottocento: una ricerca estesa, poi pubblicata anche in italiano, sul rapporto del verso italiano con il periodo musicale composto su di esso e il suo ritmo. L’indagine include pure il secondo Settecento, giacché il suddetto rapporto sussiste anche in questo secolo, e in verità sussiste fin da quando i relativi versi sono stati messi in musica. Molti dei miei lavori successivi, fino all’epoca più recente, furono poi interamente dedicati al Settecento. Porpora, Hasse, Jommelli, Paisiello, Sarti, Cimarosa – tutti nomi altisonanti, noti a chiunque abbia letto qualcosa sulla storia dell’opera italiana. Tuttavia siamo messi male riguardo alla conoscenza più approfondita della loro musica – se si eccettua forse Jommelli, su cui sono disponibili alcuni buoni contributi americani. Io ho cercato di definire lo stile di questi compositori. In questo mi fu d’aiuto il metodo della comparazione stilistica. Secondo me non è possibile parlare di Porpora senza metterlo a confronto con Alessandro Scarlatti, Haendel, Vinci, e senza allargare lo sguardo fino a Hasse, allievo presunto di Porpora. E ciò è vero soprattutto per il rapporto di Mozart con Paisiello e Cimarosa, un rapporto trattato fin qui molto superficialmente. Ho già detto, un po’ semplificando, che Mozart nelle sue opere parli italiano. Mostravo adesso in alcuni lavori che questa lingua, almeno in certi anni, era quella di Paisiello e Cimarosa, dai quali d’altro canto Mozart si discosta anche in diversi aspetti. Chiarire questo punto fu in particolare l’obiettivo di uno studio più ampio sulle differenze tra le opere buffe di Mozart e di Paisiello, uno studio del 1993. Mia moglie ed io siamo diventati di casa a Roma. Specialmente dal punto di vista culturale, l’Italia è la mia seconda patria, da cui nel 1966 mi separai molto malvolentieri – da allora vivo a Bonn. L’altro polo, il tedesco, ha comunque continuato a esercitare anch’esso una forte attrazione. E’ caratterizzato in maniera decisiva dal classicismo di Weimar e di Vienna: Goethe, Mozart, Beethoven significavano e significano molto per me. Se sono riuscito a fornire un piccolo contributo alla ricerca sulla cultura italiana, come il Vostro premio mi par voler dire, ciò mi riempie di gioia. Si tratta ad ogni modo di un piccolo contributo, certamente di tutt’altra natura rispetto a quanto un amico e collega tedesco – Martin Geck – nel 1964, quando andai a Roma, aveva previsto. Egli disse: tu lavorerai adesso con maggiore energia sulla musica italiana, ora nell’una, ora nell’altra epoca. E alla fine poi sintetizzerai ciò che è “das Italienische”, quale sia il senso dell’italianità. Questo non è accaduto. Tutt’al più ho saputo dire come si caratterizzano determinati compositori italiani e in che cosa si differenziano dai compositori tedeschi contemporanei, o in quale maniera essi li hanno influenzati. Oppure ho analizzato il diverso trattamento musicale dei testi, specialmente dei versi, nelle due nazioni. Dunque contributi di carattere più o meno puntuale, e per gran parte indirizzati più alla struttura specifica che alla “spiritualità” percepibile dietro di essa, che si sottrae alla presa forse proprio in quel momento, in cui la si vorrebbe abbracciare concettualmente in una maniera categoriale. Un collega italiano, era Mario Fabbri, mi disse una volta: gli Italiani hanno più fantasia dei Tedeschi. Ciò mi sembra errato, almeno in questa formulazione così generica. Pensiamo al tardo Beethoven, pensiamo alle opere per pianoforte di Schumann. Durante lo studio delle partiture delle opere comiche di Paisiello e il loro paragone con le contemporanee opere buffe di Mozart, mi venne in mente un altro termine, che forse, per quanto vago, ma forse proprio per questo, è più calzante: una maggiore serenità nelle composizioni dell’Italiano. Laddove Mozart ci affascina e ci tiene in sospeso con spunti, motivi ed armonie sempre nuovi, mettendo in campo “troppe note”, secondo la critica dell’imperatore Giuseppe II, Paisiello si accontenta – in simili situazioni drammatiche – di note, motivi e armonie molto meno numerosi. Egli concede al suo pubblico – e quest’ultimo era più intenzionale di quello di Mozart – più zone di quiete, oasi di tranquillità, serenità appunto, serenità mediterranea. Questa è appunto quella serenità che io stesso ho provato nelle ore felici in cui rivolgevo lo sguardo al golfo di Napoli. Ringrazio l’Italia per questo, e ringrazio il Comitato e il Rotary Club per il Premio Galilei.