Pisa, ottobre 2009
Discorso del Vincitore del Premio Galilei
Magnifice, Autorità, Signore e Signori,
Anni fa la giuria di una ricca fondazione svizzera, nella quale per puro caso siedevo, decise di assegnare il premio annuale alla comunità di monache benedettine di Müstair, intendendo così compensare i sacrifici e le privazioni silenziosamente sopportate per anni, durante il restauro dei celeberrimi affreschi carolingi e del vetusto monastero. In una chiesa stipatissima da pubblico prevalentemente mondano, lessi dapprima la laudatio, poi il presidente della Fondazione consegnò il premio alla Badessa, e finalmente le dodici monache uscirono dall’ombra a ringraziare: si disposero ordinatamente davanti all’altare, troppo mature per essere imbarazzate, ed in quel momento, nell’austerità di quel luogo magico, irruppe un applauso. Intenso, commosso, interminabile. L’applauso del mondo a queste dodici persone, che avevano scelto di staccarsi dal mondo, di seguire itinerari discosti, di operare nell’ombra, di parlare nel silenzio. Durò lunghissimi minuti quello spettacolo unico ed irripetibile. Al quale ripenso oggi, qui, nel momento in cui esprimo la mia gratitudine ai Rotary italiani, alla Fondazione da loro voluta, alle persone che la fanno funzionare come anche alla Giurìa nominata dal Magnifico Rettore dell’ateneo pisano, per il conferimento del premio internazionale Galileo Galilei.
Vengo anch’io dall’esilio, questo voglio dire; da una vita trascorsa finora in biblioteche, aule universitarie ed archivi a studiare, scrivere, insegnare, sempre anche a dubitare, a dubitare di tutto ed a riprendere sempre tutti i discorsi dall’inizio. Lontana perciò dalle luci della ribalta, dalle sempre più fitte ed insaziabili reti mediatiche come dalle vetrine, che queste ininterrottamente approntano. Lontana da tutto questo clamore, perché ho sempre creduto che questa fosse la premessa per rispondere con serenità ad una vocazione. Come ho ricordato al Prof. Sani al momento di aderire alla designazione della Giuria, ho vissuto ed operato à l’écart – come dicono i francesi – e come mi avevano del resto suggerito ed insegnato i miei maestri: quelli svizzeri non diversamente da quelli italiani, spagnoli e tedeschi, che ho avuto la fortuna di incontrare. Quindi anch’io, proprio come le monache appena ricordate, mi son visto ‘scovato’ malgré moi dalla scelta della Loro commissione, còlto sul fatto in quell’ombra operosa, che da tempo ho ritenuto indicato, quindi inevitabile, abitare. Ed anch’io frastornato da questa attestazione pubblica, da questo riconoscimento mai cercato, quindi del tutto inatteso. Già perché, a ben vedere, non ho mai veramente scelto di fare quello che ho fatto, nemmeno di occuparmi di storia del diritto italiano: ho sempre e solo assecondato richiami, ascoltato suggerimenti, ceduto a sollecitazioni: che mi venivano, una dopo l’altra, ovvero da una predisposizione personale ovvero dalla singolarità del contesto esterno, che al destino piacque assegnarmi.
Da una irresistibile inclinazione nacque la decisione di dedicarmi alla storia del diritto: presa dopo un anno di università, quindi non ancora ventenne, letteralmente ammaliato dal messaggio di un maestro davvero grande, poiché aveva appunto magistralmente risvegliato quanto in me sopiva. Fu dunque la storia a folgorarmi, proprio come furono i colori a sedurre Paul Klee quando, in una mattina d’aprile del 1914, davanti alle mura di Kairouan, si apprestava ad acquerellare la città (“die Farbe hat mich”; “il colore mi cattura”). Quanto poi alla singolarità del contesto storico-culturale, il discorso può essere breve: è marcata da una situazione ibrida, ma storicamente spiegabile. Quella di terre, sono le mie, per tutto il Medio Evo parte integrante dell’area politica lombarda, poi conquistate all’inizio del XVI secolo dai Cantoni svizzeri (che erano di lingua e cultura tedesca) e da loro bene o male amministrate per tre secoli. Dal 1803 finalmente libere, sono le terre che formano l’attuale cantone italofono del Ticino. Una minoranza sia sul versante politico elvetico, che su quello culturale italiano. Un contesto oggettivo, discutibile fin che si vuole, magari scomodo, che però prefigurava una vocazione. Quella vocazione che mi ha portato su una cattedra, quella bernese, che i miei predecessori avevano reso prestigiosa, a 33 anni ed alla quale mi sono sforzato di restare fedele fino alla fine dell’attività didattica, quindi per altri 32 anni. Insegnando sempre in tedesco (ed occasionalmente pure in francese) storia del diritto svizzero, nella quale interferivano costantemente altri apporti, quello tedesco (forse preponderante), quello francese (già in virtù del bilinguismo bernese) e quello italiano. Voglio dire: non ho fatto confluire, in quanto insegnavo, mie preferenze, non ho contrabbandato spezzoni di storia giuridica italiana per trarne una soddisfazione personale. Li ho piuttosto scoperti nella storia giuridica locale: poiché in essa si rifletteva anche l’allure sempre più ampia, sempre più anche europea, di quella italiana. Mi sono così servito dell’ibridismo, di quello ticinese come di quello svizzero, per costringere i miei studenti, centinaia di giovani che hanno allietato la mia vita, a guardarsi attorno, a farlo sempre più istintivamente, perché la materia – tutta locale – sulla quale dovevano ragionare ve li induceva. Evoco ora due tracce concrete di questo approccio, per mostrare che non ubbidì ad una mia scelta, ma venne reclamato, forse anche imposto, dai temi e dai luoghi, sui quali ero chiamato a riflettere.
Inizio dalla legislazione statutaria, presente nelle terre subalpine a far data dal XII secolo. Non è ovviamente fenomeno specifico di questi luoghi, ma di un’area molto più vasta, che comprende tutta l’Italia settentrionale. Un’area, alla quale nella Svizzera cosiddetta italiana si fece sempre ed istintivamente capo, come documenta il valore simbolico assunto nel tempo dagli statuti maggiori, quelli ad esempio di Como e di Milano, presi costantemente a modello di elaborazioni locali. Oppure come viene attestato dalla presenza di giuristi e notai in veste di arbitri, statutarii, giudici, pacificatores, autori di consilia destinati a dirimere le vertenze più scabrose o a chiarire il significato concreto di singole regole statutarie. Ma chi dice legislazione statutaria evoca una realtà (notoriamente) frammentaria, perciò implicitamente transitiva. Che rinvia cioè ad ulteriori coordinate ed a tal modo disloca la prassi, la situa in un contesto sapienziale, questo essendo in realtà il significato concreto del ruolo sussidiario ovunque attribuito al diritto comune. È dunque la scienza giuridica che in ultima analisi soccorre al silenzio statutario, attingendo ad altre fonti, ponderandole, combinandole e magari creando nuove regole, come non solo permette, ma pure impone di fare una interpretatio ancora degna di questo nome. In questo idillio, appunto familiare anche alle terre ticinesi, irruppe all’inizio dell’età moderna la conquista militare svizzera. Dal valico del San Gottardo fino al Monte Olimpino le contrade subalpine divennero suddite dei Cantoni svizzeri, proprio come la Valtellina con Chiavenna e Bormio passò sotto il dominio delle tre Leghe Grigie. Se su un piano militare e politico il cambiamento poteva apparire di ordinaria amministrazione, a livello giuridico si trasformò subito in uno scontro drammatico. Che è facile intuire se ricordiamo che i nuovi padroni nello stesso torno di anni, e diversamente da quanto stava succedendo in ambito imperiale, si erano opposti alla recezione della scienza giuridica e a tutti quei cambiamenti concreti che propiziava, rispettivamente imponeva. E che lo avevano fatto consapevolmente, ossia nell’intento di salvaguardare la propria autonomia politica, quindi anche la gestione laica (nel senso di non togata) e comunitaria della giustizia. Ed ora proprio quel nemico, che avevano tenuto lontano dalle loro terre, se lo trovano davanti in quelle appena conquistate! Un colpo mancino del destino ha fatto sì che proprio nella mia patria locale, quella ticinese, si scontrassero per tre secoli due tradizioni giuridiche di valenza molto diversa: quella sapienziale dell’area non più solo italiana ma finalmente europea, e quella arcaica e popolare dell’ambito germanofono svizzero. Radicata la prima nell’humus cetuale e monarchico, la seconda in quello repubblicano, che gli svizzeri non avevano comunque monopolizzato, se è vero che la Serenissima e le province olandesi, da questo punto di vista, trasmettevano sulla stessa lunghezza d’onda. Se l’esito concreto del confronto interessa, è perché evidenzia lo scarto con quanto succedeva attorno, massime in Italia. Mentre infatti qui il sistema del diritto comune entrò lentamente in crisi, perché sopraffatto dalla sempre più invasiva legislazione principesca o dalla giurisprudenza dei grandi tribunali, nelle terre subalpine sopravvisse, persino si irrobustì, poiché assunse una valenza politica finora sconosciuta. Rivendicò infatti una presenza ubiquitaria e tentacolare, che scoraggiava d’emblée tutti i tentativi degli Svizzeri di legiferare, quindi anche di irrigidire il loro dominio, ma in compenso garantiva ai sudditi il rispetto dello status quo.
Anche la seconda traccia, che desidero almeno lambire, rinvia ad un’esperienza continentale, ossia al sistema delle fonti successivo a quello appena esaminato. L’Ottocento fu notoriamente il secolo dei codici: di quelli nazionali e di quelli locali, tutti riassuntivi del diritto civile e penale, materiale e processuale. A questa processione la Svizzera né seppe né volle sottrarsi. Ogni Cantone ebbe perciò i suoi bravi codici, elaborati sempre seguendo procedure repubblicane, quindi occasionalmente artigianali, quando non copiati di sana pianta da quelli del vicino. L’unificazione legislativa arrivò tardi, all’inizio del XX secolo, con il codice civile sanzionato dal parlamento nel dicembre del 1907. In merito al quale fa specie un fatto: che fu salutato con entusiasmo da sommi giuristi francesi (i nomi di François Gény e Raymond Saleilles, per noi giuristi, sono in realtà icòne), che fu rivendicato dai protagonisti della scuola del diritto libero (Josef Ehrlich ed Hermann Kantorowicz in prima linea), che fu lodato da grandi civilisti tedeschi (mi limito a citare Rudolf Stammler, Josef Kohler, Gustav e Max Rümelin), ma che i grandi maestri della civilistica italiana in questo coro tacquero. Sarebbe ingiusto dire che lo criticarono e lo svalutarono. Perché in realtà (naturalmente fatte le debite, ma poco eloquenti eccezioni) nemmeno entrò nel loro campo visivo, quindi né li turbò, né li conquistò. Una sovrana e contagiosa indifferenza lo accolse, se mi si perdona quest’altro ossìmoro. Per di più proprio in anni ed in contesti, ove le lodi per il coevo codice tedesco si sprecavano. Questo fatto – come anche il relativo disinteresse mostrato per il pater legis Eugen Huber, le cui opere furono tosto tradotte in francese, spagnolo ed inglese, ma mai in italiano – mi ha a lungo infastidito, né posso né voglio oggi negarlo. Avrei potuto battere la strada del moralismo, per spiegarlo. Ovviamente sbagliando. Doveva pur esserci una ragione più convincente. Ma per scovarla, dunque per far parlare il silenzio, occorreva ragionare non tanto sul codice in sé, quanto sulla cultura e sui valori di chi, dall’esterno – in questo caso dal versante italiano – lo squadrava. Da sempre è la precomprensione del destinatario quella che determina il destino di un messaggio. Anche il codice svizzero era un messaggio, ma visibilmente ‘altro’, se accostato ai codici coevi: non era né colto né sapienziale, ma popolare e repubblicano. Interpellava non il giurista cólto, ma il bonus pater familias e la casalinga. Creava spazi per moderare l’individualismo, per compensare squilibri, per stimolare l’intraprendenza giudiziale. Era diverso, come lo era la società che l’aveva voluto e sanzionato. Ma così facendo accreditava scelte, peraltro coraggiose, che alla prestigiosa civilistica italiana, addestrata nelle palestre della pandettistica tedesca, quindi ammaliata da ben altre suggestioni ed abituata a ben altre alture, dovettero sembrare lontane, estemporanee, quando non esoteriche. Di qui non la condanna, ma il silenzio, a veder bene solo una non entrata in materia, che si accontenta di eccepire, direbbero gli avvocati, l’inconferenza del tema.
Debbo purtroppo fermarmi qui, già per il rispetto che provo per la Loro pazienza. Risulta comunque già dalle tracce ricordate, che nato com’ero se non in riva al fiume – come il Caronte della geniale anticipazione dantesca – certamente nel cuore di un crocevia, quindi in un luogo sempre anche strategicamente stimolante, ero anch’io predestinato a fare quello che ho poi davvero fatto. A far da tramite, a traghettare, a tradere e tradurre, a riavvicinare esperienze, realtà e persone, che lingue e storie diverse tengono purtroppo sempre più discoste. A farlo per tutta la vita e silenziosamente, senza cercare consensi e senza rincorrere applausi, come ho ricordato. Così, perché qualcuno questo lavoro deve pur svolgerlo, in un’Europa sempre meno attenta a questi decisivi dettagli. A lavoro oramai compiuto mi presento all’odierno appuntamento profondamente segnato, non perché stanco o deluso, ma perché arricchito da questo continuo andirivieni. Felice come davvero sono che i membri della Commissione, assegnandomi questa prestigiosa distinzione, abbiano inteso in primis riconoscere proprio questo oscuro e silenzioso servizio subalterno, umile ma essenziale, se per una volta ci decidiamo di credere e confidare non in quanto ci separa, ma in quanto ci avvicina e ci accomuna. E parimenti commosso per un fatto tutt’altro che marginale, evocando il quale vorrei davvero concludere: che culturalmente italiano come mi sento, scorgo in questo riconoscimento anche l’abbraccio che la madre riserva al figlio dislocato, “straniero” (come vuole lo Statuto della fondazione): ma in realtà mai e poi mai lontano, mai e poi mai estraneo: grazie anche per questo abbraccio, che sento forte e caloroso.