Commemorazione del Prof. Tristano Bolelli

Non parlo da linguista. Non è questa la sede per un discorso tecnico. In modo inevitabilmente autobiografico vi parlerò da scolaro di Bolelli, da ex direttore per oltre un decennio di un Dipartimento nato intorno all’Istituto che lo ebbe docente e direttore per oltre quarant’anni, da suo collega e suo successore.
Gli studi secondari di Bolelli furono tormentati. Partito dall’Istituto tecnico commerciale, passò al Liceo classico studiando il latino e il greco col solo aiuto di un vecchio prete. A Pisa, negli anni ’30, fu allievo di Clemente Merlo all’Università e di Giorgio Pasquali alla Scuola Normale.
Bolelli sperimentò di persona e ante litteram il principio costituzionale che vuole i gradi più alti dell’istruzione garantiti a tutti, purché capaci e meritevoli.
Anche per questo riteneva che il moltiplicarsi delle borse di studio fosse uno dei massimi segni di civiltà: nel Rotary, di cui fece parte appassionatamente per oltre 50 anni, si batteva perché le risorse fossero destinate prevalentemente a borse di studio, piuttosto che disperse in iniziative locali spesso di inutile e ambiziosa facciata.
Bolelli fondò il Dipartimento di linguistica nei primi anni ’70, come Dipartimento sperimentale, dieci anni prima che lo volesse la legge. Con intuito allora raro nelle Facoltà umanistiche, raccolse a Pisa un gruppo di studiosi che organizzassero l’insegnamento e la ricerca come un coro di voci, con concordia discors, come scrisse Giacomo Devoto su un quotidiano nazionale, citando la singolarità del caso pisano.
Furono gli anni migliori della linguistica pisana, gli anni in cui tutti trascorrevamo nel Dipartimento il nostro tempo ed oltre, quando il Dipartimento era tenuto aperto fino alle ore piccole e nei giorni festivi, gestito da turni volontari di studenti e docenti, fuori e contro ogni regola della burocrazia; burocrazia che Bolelli aveva il gusto quasi aristocratico di ignorare e sfidare, lungi dall’immagine, anche allora imperante, del direttore capoufficio, fatta di balbettante ossequio al potere e di sussiegosa idolatria della chiave e del timbro. Quelli furono gli anni in cui, senza chiavi e senza timbri, si formò un gruppo di studiosi che oggi occupa gran parte delle cattedre di discipline linguistiche a Pisa, in Italia e fuori d’Italia.
Primo in Italia Bolelli volle che fosse introdotta negli statuti universitari la Linguistica Generale, oggi disciplina fondante, fino ai primi anni ’60 emarginata e ignorata: il primo concorso si svolse nel ’68 e insieme con De Mauro e Rosiello lo vinse G. Lepsky, normalista di Pisa e scolaro di Bolelli che poi ne ha continuato l’insegnamento nell’università inglese di Reading.
Bolelli fu il primo a volere a Pisa l’insegnamento di Linguistica Matematica che fu una peculiarità del nostro Ateneo; e a metà degli anni ’60 sdoppiò la sua cattedra ¬– io ne fui il primo titolare – quando molti continuavano a proclamare che la linguistica doveva restare unita in una sola persona e non si accorgevano che il progredire delle conoscenze aveva fatto della nostra materia l’iperonimo di una categoria di discipline.
Noi suoi scolari siamo cresciuti nel magistero di Bolelli, fatto di severità e libertà: di severità, perché Bolelli, cartesianamente, non tollerava facilonerie e approssimazioni e le censurava in modo durissimo, di libertà, perché ci stimolava e ci incoraggiava a cercare campi nuovi e a percorrerli secondo le nostre convinzioni, purché perseguite con onestà e rigore, anche quando contrastavano con le sue.
Oggi la voce di Bolelli vive nella voce dei suoi scolari e degli scolari dei suoi scolari, non a Pisa soltanto, ma a Torino, a Trieste, a Vercelli, a Bologna, a Macerata, a Siena, a Perugia, a Roma, a Napoli, a Pescara, a Messina, a Zurigo.
Alcuni suoi scolari – ricordo solo Enrico Campanile e Marcello Durante – sono scomparsi prima di lui; altri – Edoardo Vineis, Walter Belardi e Riccardo Ambrosini – lo hanno seguito. Diceva Bolelli che la perdita di uno scolaro è come la perdita di un figlio. Erano parole di Clemente Merlo, che fu suo maestro. Ma anche la perdita di un maestro è come la perdita di un padre perché porta con sé la parte più grande del nostro passato e l’onda più lunga dei nostri ricordi.
Lo è soprattutto per me che fui fra i primi scolari suoi (primo in assoluto fu Riccardo Ambrosini) e poi suo collega e successore. Ma avevo conosciuto Bolelli assai prima della prima lezione sua che ascoltai da matricola nell’autunno del ’48 in un’aula ora scomparsa del Collegio Ricci diroccato dalla guerra.
Nella mia Pontedera devastata del ’45 lo ebbi presidente della commissione d’esame della V ginnasiale: allora il ginnasio si concludeva con un esame. Bolelli mi interrogò su un’alternanza greca guidandomi a scoprirne le cause. Fui promosso io solo. Nell’entusiasmo adolescenziale decisi allora che la linguistica sarebbe stata la mia strada. L’ho percorsa tutta, dal ginnasio, alla cattedra universitaria, all’Accademia dei Lincei, sempre accompagnato da Bolelli. E quando Guido Bartalena e Emilio Gabba mi presentarono al Rotary, Bolelli volle che il distintivo mi fosse consegnato dal Governatore.
Bolelli aveva dell’Università una concezione rigorosa ed elitaria che sembrò anacronistica a chi non coglieva le motivazioni etiche che la ispiravano: il suo elitarismo era elitarismo del merito e il rigorismo durissimo della sua scuola nasceva dalla convinzione che io condivido e che ho praticato forse ancor più duramente di Bolelli, che una scuola meritocratica e selettiva che non mortifichi i migliori per compiacere i peggiori, è lo strumento di promozione sociale meno di ogni altro inquinato dal privilegio.
Dare, come è giusto, l’università a tutti, ma dargliela degradata è come compiere una truffa miserabile contro le classi più svantaggiate. L’università degradata affida la selezione alla vita, cioè, troppo spesso, al censo e al privilegio. L’uguaglianza alla partenza è un diritto, l’uguaglianza all’uscita è una frode.
Il rigore di Bolelli non contrastava con la libertà: la libertà, anche, se vogliamo, la libertà che sconfina nell’anarchia, è il terreno di cultura della ricerca scientifica. La ricerca scientifica è scuola intellettuale e civile perché il sapere critico si alimenta di tolleranza e di libertà: la verità non si accetta – il conformismo è il silenzio della ragione – ma si cerca, e si cerca sempre e tenacemente, anche quando si ha paura di trovarla.
Questa era la scuola di Bolelli, di libertà e di rigore; di rigore dei docenti verso gli allievi, ma in primo luogo dei docenti verso se stessi: solo chi dà molto ha diritto di esigere molto.
Il suo scolaro Franco Fanciullo, già ordinario a Viterbo e a Torino, oggi mio successore a Pisa e, dunque, suo successore, ha scritto: “ Tristano Bolelli mi ha introdotto alla linguistica e molto mi ha insegnato, ma, come era nel suo inimitabile stile, senza condizionare in nulla le mie preferenze e le mie curiosità”. Con queste parole che meglio delle mie descrivono lo stile veramente inimitabile di Bolelli, in quest’aula che tante volte fu sua concludo questo ricordo che è anche un ultimo ringraziamento e un addio. (Romano Lazzeroni)