Pisa, ottobre 2004
Discorso del Vincitore del Premio Galilei
Magnifico Rettore, Autorità, Signore e Signori, Innanzitutto vorrei esprimere il mio profondo ringraziamento alla Fondazione e al suo presidente, Sergio Vinciguerra, alla giuria nominata dal Magnifico Rettore dell’Università di Pisa, ed ai Rotary Club italiani che hanno accolto tra le loro nobili intenzioni anche questo premio – ringraziare per l’onore concessomi con il conferimento di questo premio ideato da Tristano Bolelli. E questo in una città, a cui mi sento legato anche personalmente, in stima ed amicizia con storici come il compianto Cinzio Violante ed altri colleghi, con archeologi come Salvatore Settis. Ringraziare anche a nome di mia moglie, insieme alla quale ho pubblicato diversi lavori. Se dunque devo fare alcune riflessioni su cosa mi abbia spinto in Italia e sugli studi che avete avuto la generosità di onorare con questo premio, allora forse si potrebbe dire: oltre all’attrazione generale che noi nordici sentiamo per l’Italia (quella spinta irrazionale che – come si dice delle migrazioni dei lemming – ci fa gettare a capofitto oltre il bordo della montagna), per me personalmente è stata, per tentare anche una spiegazione razionale, la connessione di storia ed archeologia classica. Erano queste le due materie scelte per il dottorato, a portarmi nella maniera più naturale nella storia dell’Italia e di Roma: in un Medioevo meno medievale di quello d’Oltralpe, più impregnato di antichità. Questa sopravvivenza dell’antico è sempre rimasta uno dei cardini delle mie ricerche (sopravvivenza nel senso di continuare a vivere, perdurare, rimanere attuale, come contenuto nel tedesco „Nachleben der Antike“, dunque non semplicemente ‚scampato’, cioè überlebend) – una tematica vasta e affascinante, che poi favorisce anche il dialogo tra storici, archeologi, storici dell’arte, storici del diritto, filologi. Per chi cerca di unire storia ed archeologia è interessante soprattutto il reimpiego di antichi pezzi architettonici e rilievi in chiese medioevali, i cosiddetti spolia, di cui mi sono occupato da parecchio tempo. E in questo, Pisa costituisce a sua volta un esempio particolarmente importante, in quanto non aveva in loco una quantità sufficiente di questi pezzi antichi, ma doveva procurarseli da fuori, ad esempio per la costruzione della cattedrale. Nel reimpiego dell’antico, Pisa era inoltre molto esigente: il suo materiale di spoglio non doveva venire da un posto qualsiasi, ma da Roma, per potere così dimostrare la sua romanitas. Infatti non è, come a volte viene sostenuto: quanti più pezzi antichi disponibili in loco, tanto più reimpiego – no: l’antico non bisogna averlo, l’antico bisogna volerlo! E Pisa lo voleva, e questa per me è sempre stata una particolare attrattiva di questa città. In breve: sebbene io avessi una grande propensione per la Grecia: però, un terreno dove l’antico non aveva avuto sopravvivenza nel senso indicato, non poteva darmi abbastanza, a lungo termine. Doveva essere l’Italia. E l’Italia non solo nei suoi monumenti, ma anche nella sua storia – e questa divenne per me: la storia di Roma e del Papato, e la storia dei Comuni italiani. Da sempre storici stranieri (francesi, inglesi, tedeschi) sono venuti numerosi in Italia, perché nel medioevo italiano molte linee evolutive essenziali (non solo per la storia italiana ma per quella europea) qui si possono cogliere prima e più chiaramente che altrove. Infatti la situazione delle fonti è ricca come in nessun altro paese (da studente ero stupito nel vedere tutto quello che qui veniva documentato: persino una promessa del figlio ai genitori di rinunciare per un anno al gioco d’azzardo veniva fatta per iscritto di fronte al notaio!). Ma a questa ricchezza e a questa molteplicità delle fonti storiche qui si aggiunge ancora qualcos’altro, che io considero una delle caratteristiche più attraenti di questo popolo: la generosità con cui gli Italiani dividono la loro storia e la loro arte con gli stranieri, non dicendo: questa è la nostra storia, fatevi la vostra. Questo lo sperimentarono già i giovani storici tedeschi che nella prima metà dell’Ottocento viaggiarono per i Monumenta Germaniae Historica attraverso gli archivi e le biblioteche d’Italia, e che nelle loro lettere (conservate nell’archivio dei Monumento a Monaco di Baviera e finora poco note) dall’Italia del Risorgimento danno non solo un quadro interessante delle pergamene rintracciate, ma anche della gente incontrata. Che la strada per arrivare a manoscritti e pergamene in Italia passasse sempre per le persone, inizialmente suscitava inquietudine in questi giovani studiosi dall’impazienza teutonica e poi, dopo le prime esperienze, invece li tranquillizzava. Infatti si sperimentava come le eventuali debolezze istituzionali venissero sovranamente compensate dalle persone: Problemi italiani trovano soluzioni italiane, soluzioni dal volto umano, come non le si sarebbe sognate nemmeno nel regolamento della biblioteca più liberale (p. es. quando l’archivista portava le pergamene semplicemente a casa con sé, affinché lo studioso straniero potesse poi copiarle persino di domenica). Questi gli incontri veri, profondi – non solo superficiali, turistici – con l’Italia e la sua gente, che fanno poi degli stranieri dei veri e propri interpreti e mediatori, in quanto parlano dell’Italia in modo specifico, non esaltato, in modo preciso, non inebriato – e questo è, per me, il modo migliore per onorare il paese che tanto amiamo, l’Italia. Dico questo, preciso questo, perché come potrebbe proprio lo storico dimenticare che tra i popoli ci sono anche imbarazzi e tensioni. Se si guarda questo mondo di Archivi, Centri di studi storici, Istituti di ricerca, non solo dalla prospettiva di una carica, come quella che ho avuto l’onore di rivestire a Roma (cariche a cui si viene chiamati nei più diversi comitati), si ha l’opportunità di sperimentare da vicino come si viva in Italia con la storia, a tutti i livelli: non solo nell’ambito accademico, con lo standard tradizionalmente alto delle scienze storiche italiane, ma (per menzionare solo un esempio) osservare in occasione delle celebrazioni in memoria di Federico II con stupore e commozione come questo imperatore sopravviva nell’affetto e nella fantasia del popolo italiano, forse più che in Germania. Questo Istituto Storico Germanico di Roma – chiuso durante due guerre, dopo due guerre generosamente restituito alla Germania – è un buon osservatorio, un cardine dell’incontro e della collaborazione con la storiografia italiana, se si viene accolti – per fare solo i nomi dei direttori del nostro corrispettivo italiano – da amici come Girolamo Arnaldi e Massimo Miglio. E Roma è un osservatorio particolarmente appropriato non solo per i rapporti bilaterali ma anche per osservazioni internazionali, poiché qui 16 diverse nazioni hanno fondato ben 23 istituti di ricerca (senza contare gli istituti di cultura, e gli istituti di ricerca italiani, ma solo gli istituti non italiani di ricerca storica, storica dell’arte e archeologica). Questa concentrazione di istituti stranieri per lo studio della storia e dei monumenti del paese ospite è unica al mondo: la domanda è straordinaria perché l’offerta è straordinaria. Nel caso delle fonti storiche la ricchezza e la complessità sono tali da far sì che qui sia più facile trattare problematiche che si trovano a cavallo delle materie, delle discipline storiche, per esempio temi tra storia dell’arte e storia economica. E non solo la varietà della tradizione scritta, già la sola stessa massa, la quantità numerica di pergamene, può portare a nuove conoscenze. Qui in Italia per una sola città in un solo secolo del Medioevo abbiamo a disposizione fino a 4000 (e non solo 4) pergamene: così Lucca nel XII secolo, per menzionare un caso a me ben noto, dove grazie alla disponibilità delle direzioni degli archivi di Lucca è stato possibile elaborare il materiale in tempo relativamente breve (Don Giuseppe Ghilarducci, e il dottor Giorgio Tori sarebbero stati certamente elogiati in quelle lettere ottocentesche dei Monumenta!). Con una tale massa, e solo con una tale massa, è possibile fare certe osservazioni, p.es. come si riduce la tradizione scritta: come dei 20-30.000 contratti che doveva aver prodotto ogni anno [!] una città come Pisa o Lucca alla fine rimanesse ben poco. Non per guerre o incendi (come in prevalenza si crede), ma perché veniva fatta una cérnita, perché molto veniva gettato via: i contratti relativi a negozi commerciali, forniture ecc. diventano obsoleti quando il negozio è concluso; mentre i documenti relativi alla proprietà terriera, diritti, cessioni restano importanti e vengono dunque sempre conservati e tramandati. Questo comporta però che il quadro delle pergamene conservate che si presenta allo storico è distorto nelle sue proporzioni: il Medioevo diventa ancora più agrario di quanto già non fosse. I settori del commercio e della produzione, prima del tardo medioevo, sono meno documentati della proprietà terriera, e questo deve essere corretto: un problema metodico, che può essere riconosciuto – e corretto – in questo modo solo dagli archivi italiani. Penetrare tali masse di fonti archivistiche non è semplice. Ma tali sforzi vengono abbondantemente ripagati: le gioie di un viaggio d’ archivio, come descritte da quei giovani studiosi nelle loro lettere, le ho vissute anch’io. Non vi è nulla di più bello, la sera, storditi dopo un giorno di duro lavoro nell’archivio di una città (in Umbria, nelle Marche, in Toscana), che uscire per le strade – lo „struscio“ è già iniziato, si pensa di conoscere già in qualche modo la gente, in quanto si sono appena incontrate le generazioni precedenti nelle pergamene dell’archivio di questa città. E se gli storici si interessano alle strade di una città medievale attraverso cui passava la processione del Corpus Domini, poiché questo dice molto sulla città stessa („topographie réligieuse“, così viene chiamato questo ramo della ricerca), allora io direi: sapere dove passa lo struscio, dove si gira, i bar preferiti dalla gente ecc., oggi dice molto di una piccola città. Così comunque come storico ho iniziato a vivere con l’Italia, all’inizio degli anni Sessanta, in un’Italia ancora completamente diversa, che io – come i film di allora – ricordo per così dire in bianco e nero. Come per lo storico queste sono le gioie quando scende nella stratificazione storica delle città italiane, altrettante lo sono per l’archeologo quando si segue ad esempio un’antica via consolare attraverso la campagna (come ho fatto anche io diverse volte con mia moglie). Già per il fatto che le strade romane correvano dritte dritte attraverso il terreno, e che questo decorso rigidamente rettilineo spesso in epoca postantica veniva sostituito da uno curvilineo, i tratti abbandonati a volte sono rintracciabili solo con grande sforzo. Chi vuole seguire il loro tracciato deve farsi strada dritto tra i cespugli, attraversare dritto fossi profondi, viene dunque costretto a superare gli ostacoli che altrimenti avrebbe aggirato – ma anche indotto a incontri umani che altrimenti non avrebbe fatto: chiacchierate inaspettate con i contadini, vino offerto, uova regalate. Queste sono le gioie del seguire la storia in aperta campagna, e al contempo sperimentare con tutti i sensi il paesaggio italiano. Visualizzare la storia, oppure: cogliere la storia con i propri occhi, non solo con riflessioni metodologiche o filosofiche: „Uno sguardo su Roma“, ha detto Ferdinand Gregorovius, „uno sguardo su Roma rende più filosofi che cento serate d’inverno trascorse studiando Aristotele“. Roma dunque – e permettetemi di parlare infine ancora di questa Roma, che mi ha ben presto avvinto – non solo la Roma degli imperatori e dei papi, ma anche la Roma dei Romani. Per parlare anche qui il meno possibile della mia persona e venire solo alla questione vera e propria, Roma: sono convinto che ciascuno di noi abbia dentro di sé un’immagine di Roma, già da giovane, prima ancora di aver letto una sola riga su Roma, prima ancora di aver visto una sola fotografia di Roma! A questo riguardo un breve episodio. Una cronaca medievale riporta che nell’anno 860, un capo vichingo, conquistando con i suoi drakkar la piccola Luni (presso Pisa, appunto), già pensava di aver conquistato Roma: ratus cepisse Romam caput mundi! Come mai? Forse a questo vichingo mentre saccheggiava una città vescovile costruita in legno sul Mare del Nord, questa era stata descritta forse come la „Roma del Nord“ – e quindi pensò di avere davanti a sé la vera Roma non appena si imbatté nel suo primo anfiteatro! Comunque vogliamo spiegare questo malinteso: questo barbaro, nella sua semplicità d’animo, aveva dentro di sé un’immagine di Roma! Questa immagine, questa aspettativa che il solo nome di Roma scatena in tutti gli uomini, è questo che fa di Roma un lieu de mémoire, un luogo della memoria d’Europa. Cosa significa? Come forse sapete, negli ultimi anni si è sviluppata una tematica che si occupa dei ‘lieux de mémoire’, dei luoghi della memoria. ‚Luogo’ non in senso geografico ma piuttosto, come il greco topos, nel senso di „luogo comune“: concetti, località, simboli, momenti storici, a cui in un popolo tutti collegano qualcosa (di positivo o di negativo), in cui dunque si cristallizza la memoria collettiva di una nazione; e „lieux de mémoire”, francese, poiché questa tematica venne sviluppata per la prima volta in Francia da Pierre Nora, che riuscì a far trattare dai suoi colleghi più importanti luoghi come (e da questi esempi vedrete meglio che non con astratte spiegazioni concettuali, cosa si intenda) p. es. „Jeanne d’Arc“; „Vézelay“; „la mairie“ (il municipio – ma in Francia ha ben altro significato emozionale); „le mur des Fédérés“ (quindi la fine del Commune nel 1871), ed altri lieux de mémoire ancora. Nel frattempo vi sono stati pubblicati volumi sui luoghi della memoria anche degli Italiani, degli Olandesi, dei Tedeschi – ciascuno naturalmente con luoghi completamente diversi. In breve: un approccio fruttuoso, che non è affatto specialistico, al contrario. Ognuno, anche il non storico, può partecipare (scegliete Voi stessi 30 o 50 di questi luoghi per la storia italiana, che pensate siano luoghi della memoria positivi o negativi non solo per Voi, ma per la maggior parte degli Italiani!). Infatti è storia nazionale vista non con la conoscenza dello storico, ma con i sentimenti (anche le emozioni) di tutti, e proprio per questo permette di penetrare profondamente nell’immaginario di un popolo – nell’immaginario attuale! Per tornare al nostro tema vero e proprio: non si tratta dunque di tematiche come „L’idea di Roma da Gregorio Magno a Dante “, „L’idea di Roma di Goethe“, e simili; queste sono state analizzate spesso. Ma si tratta di quegli strati più profondi, inconsci (frutto non del cervello, ma dell’animo) – e di Roma non solo per le singole nazioni, ma come luogo di memoria dell’Europa intera. Pierre Nora dice però: luoghi della memoria europei non esistono; esistono solo quelli nazionali (oppure appartengono al retaggio universale). Ma per Roma egli non dubita che sia così (Roma che al contempo rientra anche nella categoria del retaggio universale). In breve: con Roma entriamo in una dimensione assolutamente nuova della memoria storica europea. Questa è solo una constatazione, che non intendo qui approfondire ulteriormente. Non sarebbe difficile elencare una fitta serie di citazioni pertinenti riguardanti Roma già solo da Petrarca, Chateaubriand, Goethe e Lord Byron, e riunirle in un’immagine multinazionale di Roma (e spesso si fa proprio così). Ma qui si tratta di qualcosa di diverso. Si tratta della questione: cosa è l’eterno nella Roma Eterna? Giungo alla conclusione. Per così tante gioie e conoscenze, gioie della conoscenza (che già di per sé sono una ricompensa) ottenere per di più un premio, venire anche premiati, è davvero molto! E di questo Vi ringrazio di cuore.