Pisa, ottobre 2003
Discorso del Vincitore del Premio Galilei
Signor Rettore Magnifico, Signor Sindaco di Pisa, Signor Presidente della Fondazione Premio Galilei, Signor Governatore del Distretto Rotary 2120, Signore e Signori, il mio grazie è intenso per l’alto (e immeritato) onore che mi viene riservato. Sono cosciente (a volte in modo travaglioso) dei miei limiti, ma questa vostra decisione agirà per me da stimolo, da sprone a migliorarmi, a approfondire le mie ricerche, che sono tutte quante improntate anche all’amicizia che sussiste tra la Svizzera e l’Italia, due paesi che così tante cose uniscono. Per il breve intervento d’oggi ho scelto due temi: 1) una riflessione sul giovanilismo sgamare che da Roma ha via via in questi ultimi dieci anni occupato l’intera Penisola e anche la parlata di giovani italiani all’estero e 2) alcuni elementi sui rapporti che legano lingua e società, connessi alle nuove locuzioni che nascono ogni giorno sotto i nostri occhi. Ho a lungo titubato tra il percorrere una rassegna dei lavori che ho svolto sin qui (mi occupo ora da alcuni mesi di storia del diritto e toponomastica) e il proporre qualcosa di specifico, fatto appositamente per questo incontro, che mi reca un così grande piacere, gioia che vorrei condividere con mia moglie, che mi ha sempre sostenuto a fondo, a volte anche contestando con vivacità le interpretazioni che le sottoponevo in prima visione. Nel timore di riuscire ancor più noioso con una rassegna anodina delle mie ricerche, opto per due casi specifici (qualcuno penserà: troppo specifici). A. Accostiamoci al primo caso, che tenta di sondare le vicende percorse da un giovanilismo recente, appunto sgamare. 1.Importa non farsi impigliare subito nella prima possibilità fonetica che si presenti. C’è da spiegare il romanesco ecc. sgamare‚ capire le cose, in sé ‘capire il gergo’? Si assume (Quaderni di semantica 1996. 1.131-148) la prima cosa che abbia qualche affinità, si prende il latino squama e di lì si vuol desumere sgamare come se il significato di base fosse ‘spulare il grano’. Dimenticando, oltre ai problemi fonetici, la inverosimiglianza della cosa, e non tenendo presente la ben scarsa vitalità della voce, è noto quasi solo l’esito sgama, squama, per di più in ambito bellunese. Inoltre, il lat./it. squama non è entrato nell’immaginario popolare e gergale. Vi è una ben scarsa vitalità dialettale e gergale del termine squama. Colpisce, nei molti materiali gergali che abbiamo percorso, la nessuna radicatezza di simile metafora: non affiora mai l’immagine dello squamare o simile per indicare il fatto di ‘capire’. E’ una presunta metafora del tutto isolata e per nulla radicata nello spirito dei gerganti. Chi approfondisca i gerghi valtellinesi è confrontato con l’immagine (bella, densa di tecnicità) del ‘capire il gergo’ (titulà) come conoscere e intuire le proporzioni di metalli (il titolo, quale termine tecnico) che dovevano essere immesse in una lega per farla riuscire. Una immagine acuta, in sé profonda: dinanzi alla quale l’idea del capire come un presunto aggancio alla squama appare quasi futile. Si pretendeva poi (con squama) che esistesse un’immagine contadina, agraria nei gerghi: che ne hanno ben poche. 2. E’ utile accostarsi a sgamare ‘capire al volo qualcosa’ da un altro punto di vista. Per noi l’idea base è quella del ‘capire il gergo’, mentre si avanza la proposta di riconoscerlo come un derivato del (diffuso, e antico, e radicato) termine calmo, che circola da secoli nel senso di gergo. Sostiamo un momento su questo termine. È al Trecento e, poi, al dispiegarsi dell’espressività comica in testi del Rinascimento che si rifanno le radici di parlare in calmone. Un’espressione che non può essere ricondotta alla nozione di ‘innesto’ come si continua a fare anche in aggiornati vocabolari e saggi. In effetti, il semantismo ‘innesto’ non ha concorso a originare nessun’altra designazione gergale di questo tipo. Forti sono le perplessità che suscita la spiegazione corrente che si avanza per parlare in calmo. Vediamo di seguire più da vicino il tipo parlare in calmo e calmone che venne assegnato già nel secolo XI al gergo e che giungerà fino a noi: fino ad oggi esso è ad esempio accertabile sulla bocca di anziani laveggiai della val Malenco (in Valtellina). La spiegazione canonica che viene avanzata è quella (Prati l940, num. 82) del veneziano calmón, succhione, rimessiticcio, da calmo, marza d’innesto, che sarebbe stato trasposto a un senso figurato. Ma troppe difficoltà si oppongono a tale presunto passaggio semantico. Pesa in negativo l’isolatezza di simile metafora. 3. Appare utile proiettarsi verso prospettive nuove. Proponiamo di intendere calmo ‘gergo’ come un traslato che i gerganti hanno desunto dall’aggettivo calmo ‘pacato, tranquillo’. Da questa accezione si passava poi al significato di ‘segreto’. La nostra lettura viene corroborata dal sussistere di diverse altre espressioni e analogie semantiche. Citeremo far qualcosa di cheto che vale ‘fare senza provocare rumore, tacitamente, furtivamente’. Si ricorda pure fare qualcosa alla chetichella, usato, come noto, nel significato di ‘in silenzio, ‘di nascosto’, locuzione che muove da cheto, quieto, calmo, silenzioso. Compare la connotazione della furtività, del far qualcosa di illecito o che non deve esser visto dagli altri. Calma e calmone venivano applicati a quanto doveva avvenire di sotterfugio, come molte cose nell’agire di gerganti, vagabondi e mendicanti. Una conferma proviene anche dal francese, dove il latino quietus, divenuto normalmente coi, ha dato esiti del tipo: francese coiement, sans bruit, secrètement, avverbio che ebbe un’alta frequenza tra il sec. XII e il l675 (FEW 2. 2. l470). Né il parallelo semantico si offre solo per quietus. Esso si presenta pure in rapporto alle vicende quali sono state percorse dal latino cauma (donde il francese calme e l’it. calma). In aree francesi il verbo latino calmare si è continuato in vari modi, tra cui il noto chômer, essere disoccupato, letteralmente ‘riposare’. Oltre a quest’esito di lingua, si incontrano forme come il francese regionale chômer, rester tranquille, gaum. tchaumé, lavorare senza farsi vedere, in modo sornione, Rustan chaumà, stare in agguato: tutti semantismi che si appaiano al nostro calmo come linguaggio segreto, linguaggio sornione e al fatto di stare in agguato e tender tranelli che tanto caratterizzava il comportamento di molti gerganti. Idea chiave, dunque, quella del quieto, del calmo, della cosa segreta. Su di essa poteva poi influire l’immagine del tipo che fa il colpo senza farsi notare, senza far quel rumore che richiamerebbe l’attenzione degli estranei. Sia un tempo, sia oggi vi sono ambienti in cui è apprezzato il tipo che sa fare il colpo senza tradire agitazione alcuna, con sicurezza. Vedi inoltre il francese antico e medio en recoi che, derivando dal latino requies, dà applicazioni quali ‘in segreto, di nascosto, alla chetichella’, che sono appunto i significati che abbiamo trovato, e che ritroveremo nel Veneto per cal(u)mar. Cfr. il tedesco still, aggettivo che indica ‘tranquillo, calmo, silenzioso’ e che giunge anche al senso di ‘segreto’: stiller Ort è un luogo calmo, tranquillo, ma stiller Kummer è una preoccupazione segreta. Esaminato il quesito semantico, ecco, in sintesi somma, l’elemento documentario. Calmo, gergo, è del sec. XI, poi nel Boiardo (sempre in calmo e per zergo ragiona; Orlando Innamorato II,3,40,3; LN 2l, l25) e in un sonetto di Niccolò da Correggio dell’inizio del Cinquecento: ma io scio ben che tu intendi il zergo e il calmo. Per procurarsi denaro ed elemosine, i gerganti ricorrevano a diversi inganni. Ne doveva nascere, per calma, l’uso anche nell’accezione di ‘elemosina’, di ‘deceptio, frode’. Così in una delle più antiche testimonianze di furbesco che possediamo, lo Speculum cerretanorum che il curiale urbinate Teseo Pini stende attorno al l485 per documentare le attività dei falsi mendicanti. L’estensione semantica si chiarisce appena si pensi appunto all’infinità di frodi cui i falsi mendicanti ricorrevano per indurre il pubblico a mollare loro l’elemosina. Nel significato di ‘fare una cosa alla chetichella, senza far rumore’, il verbo era usato anche dai veneziani: cal(u)mar, fare qualcosa in segreto, conseguire alla chetichella, di sotterfugio e poi rubare, calumarse drio a uno, seguirlo in segreto, pedinarlo, veneziano dar una cal(u)mada, compiere un furto (ancora 2001). Un altro affioramento della voce è costituito, con il noto passaggio (italiano settentrionale e italiano centrale) di c- in g-, dal tipo ingalmire, parlare in gergo, tuttora rilevabile, ad esempio, nel canton Ticino, a Cavergno (ingalmì) e nel gergo di Crealla (Piemonte occidentale) parlà da mia fass ingalmì, parlare in modo tale da non farsi capire, gergo mantovano ingalmir, capire, sentire, gergo bolognese ingalmir, comprendere, capire (2000). Nelle zone distali dell’area di diffusione, la voce si sfilacciava semanticamente e da ‘parlare il gergo’ passava a ‘conoscere il gergo, capirlo’, donde poi appunto il significato di ‘comprendere una parlata segreta’. Tanto fitta presenza di calmo (e derivati) non sorprende in una zona come la veneta in cui i ricami gergali godettero di ampia fortuna anche nell’utilizzazione espressiva di tipo letterario (cfr. anche Folengo, Tifi Odasi, Studio padovano). 4. Sgamare: una nuova lettura Il cerchio si stringe. Sgamare (variante dell’Italia centrale) non sta solo, non è un insolito pollone (di un termine come squama) bensì appartiene a un contesto più ampio, che lo lega (e non poteva essere altrimenti, conoscendo la già antica mobilità sovraregionale dei gerganti) con usi dell’Italia settentrionale. Dal tipo (s)galmare ‘parlare il calmo, il gergo’, ‘capire’, si passava a sgamare ‘idem’. Si richiama l’assimilazione cui inclinano tante parlate centrali e meridionali (Rohlfs, Gr. st.it. § 240, 331,332). Scontati, casi come almeno che nel napoletano giunge ad ammeno e riscontri quali il romanesco palma, la pianta, che dà pamma (2002). Per l’assimilazione della l+ consonante sussistono casi come *tolre/togliere/torre ‘prendere’, messinese sòddu ‘soldo’, lucano meridionale upp ‘volpe’, casi menzionati da Rohlfs § 240 (assimilazione alle consonanti seguenti). A questo capitolo rohlfsiano va ora aggiunto anche sgalmare/sgamare. Che ha dapprima significato ‘capire il linguaggio furbesco’. Poi è stato applicato al ‘capire’ tout court. Terza fase: da una percezione si passava all’altra. Sì che si giungeva anche a ‘vedere’, ma, appunto, in una fase successiva: romanesco sgamá, voce del gergo carcerario, vedere (Chiappini, Vocabolario Romanesco, Roma, 1945, p. 313, che reca materiali raccolti tra il 1873 e il 1900). Non è difficile rendersi conto di questo passaggio applicativo da ‘capire’ a ‘vedere’. Non diciamo forse anche noi: quello vede le cose per dire ‘quello le capisce’? Ecco, dunque, usi (oggi romaneschi) del tipo: l’ho sgamato che mi stava levando le scarpe dalla biga, l’ho sorpreso che mi stava rubando le gomme dell’automobile (Ferrero 1991.318), poi gergo carcerario: hai sgamato hai notato la cosa, te ne sei accorto, hai visto (Roma 2000); ancora: …sgamando subito che erano sparate da ubbriaco (Pasolini, Ragazzi di vita). La fortuna di questo verbo, oggi (dal 1988 circa), è forte negli usi giovanili di gran parte d’Italia: un esempio dei numerosi commenti espressivi (racchia, jella) che molti giovani hanno assunto dal romanesco. Del resto, di recente (maggio 2003), ci è stato dato di udire, in una lezione universitaria di prova, un giovane candidato romano parlare di ha sgamato per dire: ha capito. E il significato ‘sfuggire’ e ‘fuggire’, che pure è attribuito a sgamare?, chiederà qualcuno. L’idea era quella dell’intuire con rapidità la malparata e di sottrarsi destramente al pericolo che stava giungendo. Nell’un caso (capire al volo le allusioni che erano destinate ad altri) e nell’altro (sfuggire, sottrarsi destramente a uno) stava l’idea di base del farla in barba all’interlocutore. Affiorano materiali gergali che presentano non poche volte la processualità semantica: ‘capire al volo’‚ sottrarsi a un tizio, al poliziotto per esempio o al pericolo (s)fuggire. 5. Ma veniamo a un ulteriore continuatore dell’it. e gergale calmo. In varie parlate italiane (romanesche, fiorentine, venete ecc.) correva e corre il verbo camuffare, sgamuffare, non nel senso di ‘nascondere’ bensì in quello di ‘capire al volo una cosa’; cfr. ad esempio valsuganotto sc-sgamuffare, capire, comprendere il gergo. Varie sono le interpretazioni che, in tema, sono state avanzate: per rapidità si rinvia a DELI 1999. 283. Ma l’idea che ci preme segnalare è quella di riconoscere, munito del suffisso gergaleggiante —offa di cui si hanno molte prove (vedi scartoffia, e gaglioffo), una ulteriore variante e applicazione di sgamare. Sgamare ‘capire’ veniva provvisto dello pseudosuffisso —offa e diveniva sgamuffare: verbo usato dai gerganti esattamente nello stesso senso. Al verbo venivano poi fatte percorrere delle applicazioni contestuali che lo portavano ad essere usato nel significato di ‘capire al volo’, ‘interferire con il pensiero di un altro’, ‘imbrogliare l’altro’ ecc. Infine, ‘mascherare una cosa, un imbroglio’, ‘celare’: il significato che ci è noto dall’uso corrente e che è più vulgato. Ma la matrice era gergale ed era quella di calmo/calmare/sga(l)mare. Ci sembra possibile proporre l’albero semantico che segue: lat. cauma/ poi calma lat. spontaneo calmu(m) ‘calmo’ ‘tranquillo’ it. calmo gergale calmare, sgalmare, sgamare veneto camuffare (con —uffo di ambito gergale) it. gergale e veneto camuffare ‘ingannare’ ‘imbrogliare’ ‘nascondere’ ‘camuffare’ (anche in senso militare) fr. camoufler (almeno dal 1837) fr. camouflage deverbale camuffo ‘ingannatore’ (Venezia, sec. XV), ladro (Nuovo Modo de intendere la lengua zerga 1545) ‘uomo da poco’ ‘uomo di cui non ci si può fidare’ i camuffi di Rialto i ladri di Venezia (Della Casa) gerghi it. settentrionali è un camuff(o) ‘è un tipo scaltro, infido, mascalzone’. Le cose si legano e si risolvono, chiarendosi a vicenda. Si chiariscono, ad esempio, in alcune zone d’Italia, applicati al mondo della moda e dei suoi orpelli, usi (già antichi) come veneto e triestino camuffo, pizzo, guarnizione, falbalà. Nell’ambito della moda camuffare veniva, insomma, fatto passare a indicare ogni intervento innaturale, a trompe l’oeil; di qui casi come vic. camufo, balzana, falbalà, gala, aggiunta, pettorina aggiunta, veneziano camuffo, balza, gala. Aggiungi che nella parlata della vecchia camorra il gamuffo era il segnale convenuto tra complici,era il segno d’intesa, mentre quale camuffo si designa in Calabria il fazzoletto che veniva annodato al collo come distintivo di appartenenza all’onorata società. 6. Si può concludere: * il verbo sgamare (nella sostanza radicato nell’Italia centrale che oggi incontra così tanta fortuna tra molti giovani non si riconduce a squama come è stato di recente ipotizzato; * la sua esistenza è più complessa e nel contempo più lineare, radicandosi nel compatto e antico calmare che voleva dire ‘parlare il gergo’: si ebbe calmo> calmare> galmare> sgamare; una trafila semplice (ma cui occorreva pensare) * si presenta una nuova pista interpretativa anche per camuffare; e si accerta una caratteristica gergale (cfr. anche Lurati 2001. 905 a.v. svignarsela) per cui il semantismo ‘fuggire’ scaturisce spesso, nell’esprimersi dei gerganti, da quello di ‘capire al volo’. B. Ma è tempo di venire, per tentare almeno un accenno, visto il poco tempo che ci rimane, ad un altro aspetto in cui l’attenzione dei linguisti può riuscire utile. E’ il caso del riflettersi nella lingua di problemi che toccano ampie fasce delle comunità. Si veda a mo’ d’esempio il concetto società, sul quale il discorso recente costruisce non poche nozioni nuove. Si è ad esempio saldamente imposta la riflessione sulla società affluente, interpretazione critica che polemizza con certe conseguenze del benessere instauratosi nei paesi industrializzati: un calco dall’inglese affluent society propagato tra l’altro dall’omonimo libro dell’economista canadese J.K. Galbrait, uscito dapprima in Italia con il titolo di L’economia del benessere (Milano 1958). Doveva però prevalere il richiamo al termine inglese. Solo in certi casi giunse poi ad imporsi la qualifica di società opulenta. In una discussione più recente si inserisce la nozione di società trasparente, lanciata nel 1989 da Gianni Vattimo: una tessera di una più ampia interpretazione sulla fine della storia o fine della modernità. Su questo sfondo, il concetto della società trasparente viene usato a designare un modello di società improntato a una grande idea-guida, nell’ambito di un’umanità illuminata e autocosciente, in cui il ruolo del mass-media sia positivo e arricchente. Sui vari usi anche dialettici e contrastanti cui è stata usata la nozione (e altre affini) rimando al mio Per modo di dire: storia della lingua e antropologia culturale attraverso le locuzioni italiane ed europee, uscito nel 2002 a Bologna presso Clueb. Ma le preoccupazioni sono intense per certe aberrazioni dell’uso dei mass-media non poche volte votati solo alla conquista di un pubblico quanto più ampio possibile che viene utilizzato come mero soggetto di irradiazione pubblicitaria. Nascono, inoltre, qualifiche come società dei due terzi, società dell’accelerazione, società cablata, società videopatica. Alcuni poi, di recente, si preoccupano di che viviamo ormai spesso in una società di simulacri. E circolano espressioni quali società aperta (coniata da Karl P. Popper, che per altro riprendeva un concetto di Henri Bergson). Si pensi poi a nozioni nuove, legate ad altri aspetti del vivere d’oggi, come famiglia monoparentale, famiglia di fatto, famiglia a doppia carriera, famiglia a monocarriera ecc. (In Svizzera si parla anche di famiglia diurna, come, dal 1990,vengono designati alcuni nuclei famigliare che si occupano di un bambino non loro che, per vari motivi, non può essere seguito dai genitori (mamma diurna; Tagesmutter). Ma dobbiamo smettere. Non sono poche insomma le attenzioni che suscitano certe tendenze che si delineano oggi nelle società. Anche da ciò (ma non è che un frammento di analisi) si vede quanto intensamente la riflessione linguistica si intrichi con i problemi del nostro tempo. Dalla lingua, in un modo diretto o mediato, si torna insomma sempre alla società e all’uomo.