Pisa, ottobre 1974
Discorso del Vincitore del Premio Galilei
Sono vivamente commosso dal grandissimo onore che oggi mi si fa in questa solenne seduta, conferendomi il premio Internazionale Galileo Galilei dei Rotary Italiani; e lo accolgo con sentimenti di profonda gratitudine per i promotori, e per la giuria di illustri colleghi, presieduta dal Prof. Bolelli, che mi ha giudicato degno di riceverlo. Mi sento tanto più emozionato e consapevole dell’alto prestigio di questo onore, quando rivolgo il pensiero all’elenco dei miei predecessori, che si sono distinti con universale plauso nei loro rispettivi campi di studio. L’essere accolto tra cotanto senno mi ispira sentimenti di fierezza, ma anche di umiltà; nessuno oggi è più di me sensibile agli inevitabili paragoni. Ma in me prevale un senso di grandissimo piacere, aumentato dal suo carattere inaspettato. Vincere un premio concorrendo di sua propria volontà, darebbe senz’altro enorme soddisfazione: riceverne uno della qualità del Premio Galileo senza neppure sapere di essere candidato, è più che raddoppiato piacere, perché giunge fuori di ogni ambizione, speranza o aspettazione. Io sono perciò lietissimo di accettare questa bellissima statuetta e questa targa d’oro come testimonianza della vostra stima del mio lavoro in passato, ma anche come incitamento a sforzi maggiori in futuro. La nomina a questo Premio mi ha dato occasione (non voglio dire scusa) di venire ancora una volta in Italia, che da molti anni considero quasi una seconda patria. Non saprei dire quante volte io l’abbia visitata: sufficienti comunque per scorrerla in lungo e in largo, e per conoscere quasi tutte le sue regioni, tanto che attraverso 30 anni di frequentazione me ne sento quasi cittadino. Rendere ora pubblica ragione dell’amore che nutro da tanti anni per l’Italia e per gli studi di letteratura e lingua italiana che mi hanno portato al presente traguardo, vuol dire in primo luogo spiegare a me stesso cose che da lungo tempo davo per scontate, come se fossero le più naturali del mondo. Mi son dovuto fare una specie di esame di coscienza, una ricerca retrospettiva autobiografica, che, se non vi dispiace sentirla, potrà almeno in parte spiegare e in un certo qual modo giustificare la mia presenza in questa illustre sede. Chiedo scusa dunque se vi parlo, sia pur brevemente, di me stesso, e nel medesimo tempo di alcuni amici e colleghi italiani, presenti e assenti, con cui nel corso dei miei studi ho contratto debiti. Quando nel ’38 iniziai, durante il mio primo anno universitario oxoniense, lo studio della lingua e letteratura italiana, – per motivi che ora sembrano triviali (volevo aggiungere un’altra lingua romanza al troppo studiato francese; avevo sentito parlare di Dante e di altri autori, ma non avevo avuto nessun contatto né con l’Italia né con italiani), allora mi trovavo in un ristrettissimo gruppo di allievi del primo ordinario della cattedra Serena, l’insigne studioso di Dante e del Foscolo, Cesare Foligno. Non erano tempi molto favorevoli per i rapporti anglo-italiani né per gli studi italiani in Inghilterra, ma per me il biennio ’38-’39 è stato fondamentale. Visitai l’Italia per la prima volta nel ’39 alla vigilia della guerra; e neanche un lungo periodo di servizio militare, lontano dalla patria e dall’Italia, poteva cancellare il ricordo di quella visita e degli studi iniziati con tanto fervore e incoraggiamento. Tornato nel ’46 agli studi universitari, mi veniva spontaneo il desiderio di rinnovare e di approfondire il mio interesse per la cultura italiana, sospeso ma non interrotto per 6 anni. Dire che nel frattempo molto era cambiato, è dire troppo poco. Ma nel confuso mondo del dopoguerra una cosa era chiara: i rapporti anglo-italiani uscivano rinvigoriti dalle esperienze belliche. I contatti militari davano luogo a più vivi contatti culturali. Chi come studente o studioso di italiano prima della guerra si era sentito isolato e solitario, non aveva più bisogno di essere rassicurato nella convinzione di aderire ad uno dei più importanti filoni della cultura europea. Comprovata attraverso dure esperienze la naturale simpatia tra Inghilterra e Italia e ristabiliti contatti e scambi culturali, si preparava il terreno per i più fecondi studi italiani; e non solo da noi e non solo nella lingua e letteratura. In questa atmosfera di rinnovati rapporti con l’Italia e di sempre maggior interesse per la cultura italiana antica e moderna, ripresi gli studi non più in un piccolo gruppo, ma tra una folla di giovani attirati dal fascino dell’Italia. Fortunatamente per noi Oxford era attrezzata in quegli anni per bene incanalare questo entusiasmo e per crearne una scuola di studi. Alla cattedra rimasta vacante durante la guerra era succeduto lo storico del diritto A. Passerin D’Entrèves, il quale chiamò accanto a sé per l’insegnamento letterario un suo compaesano che si era già distinto come studioso del ’400 e ’500, e in ispecie del Bembo, Carlo Dionisotti. Non esito a dire che per me – come pure per altri e per gli studi in generale – la presenza di questo maestro a Oxford e poi sulla cattedra di Londra è stata assolutamente decisiva nel determinare l’indirizzo e il carattere dei miei studi. I miei debiti verso di lui allora e poi sono di quelli che non si possono mai saldare. Appena laureatomi, ebbi il privilegio di insegnare accanto a Dionisotti e, più importante, di aiutarlo nella preparazione di una antologia commentata di antichi testi italiani, che ha avuto una certa fortuna: e sempre sotto la sua guida intrapresi 25 anni fa lo studio delle opere di L. B. Alberti che in vari modi ha occupato poi tanta parte della mia attenzione. Il maestro era ed è impareggiabile; l’indirizzo e la scelta del tema non potevano essere migliori, sia per i miei interessi e le mie capacità, sia per le possibilità di ricerche nuove nel campo degli studi umanistici. Chiarita presto la necessità di preparare una edizione critica delle opere volgari dell’Alberti, mi si faceva sempre più evidente il bisogno – e me ne dava esempio cospicuo il Dionisotti – di lavorare sulle materie prime, volendo in qualche modo impostare o rinnovare lo studio serio della cultura umanistica latina e italiana in quell’epoca così importante anche per la storia della lingua. D’altra parte la complessa varietà delle attività dell’Alberti, e la sua posizione centrale nella cultura del ’400 mi obbligavano ad approfondire la mia conoscenza delle varie tradizioni che confluivano nelle sue opere. In altre parole iniziai, quasi senza esserne consapevole, il mio apprendistato alla nuova filologia, che significa il recupero totale dell’opera dalle fondamenta: a quel principio vorrei essere, o almeno credere di essere, rimasto fedele. Tra le mie primizie mi piace ricordare in questa sede un articoletto pubblicato su “Lingua Nostra” grazie ad un lontano incontro oxoniense col maestro dei moderni studiosi della lingua italiana, Bruno Migliorini; poi l’edizione di due opuscoli inediti dell’Alberti, apparsa nella collana di Testi umanistici della Scuola Normale di Pisa diretta dal Mancini e dal Kristeller – un lavoro che probabilmente non avrebbe visto la luce, e sicuramente non in quella collana, senza l’aiuto amichevole di Alessandro Perosa, allora segretario della Normale. Intanto in quegli anni e poi, attraverso le mie esplorazioni nelle biblioteche italiane e in vari convegni di studi avevo la possibilità di conoscere e entrare in rapporti con molti studiosi delle nostre discipline. Non vi spaventate, ché non intendo farvene l’elenco: vorrei semplicemente insistere sul fatto, ovvio ma non perciò men vero, che il mio interesse e il mio amore per la cultura italiana si sono nutriti non soltanto di letture e ricerche solitarie, ma anche di corrispondenze e contatti umani, di amicizie che valgono tanto per il loro grato incoraggiamento come per l’aiuto prestato nel lavoro. In questo largo senso devo molto più a molti colleghi, che non saprei esprimere con povere parole. Mi permetto comunque di ricordare qui un nome e una istituzione che mi sono particolarmente cari: l’amico Prof. Raffaele Spongano e la sua Commissione per i Testi di Lingua, la cui collana di testi ha ospitato due edizioni mie di interesse linguistico: la grammatica dell’Alberti e quelle Prose di Vincenzo Calmeta, che ho avuto la fortuna di trovare in una biblioteca spagnola. Da parte mia, come socio della stessa Commissione, ho cercato di contraccambiare quanto potevo, presentando per la pubblicazione lavori dei miei allievi e colleghi inglesi, e con ciò fomentando quella collaborazione che nella mia esperienza ho trovato così proficua, e credo sia essenziale per lo sviluppo dei nostri studi. Colgo l’occasione, parlando di collaborazione, per rammentare quanto devo al presente Direttore degli “Scrittori d’Italia”, l’amico G. F. Folena, il quale ha seguito con vivo interesse, pazienza e perizia filologica la lunga e lenta preparazione delle mie edizioni albertiane. Nei 27 anni della mia carriera universitaria, sempre a Oxford, i miei interessi e il mio insegnamento si sono estesi a tutta la storia della lingua e letteratura italiana; e grazie alla generosità della mia università e a cordiali inviti, ho potuto svolgere il mio insegnamento in molte altre parti del mondo, facendo corsi o conferenze in questi ultimi dieci anni in vari centri universitari nord-americani, e l’anno scorso anche nella Nuova Zelanda e in Australia. Ho avuto modo così di conoscere quanto sia vivo dappertutto l’interesse per la cultura italiana, e di dare un qualche contributo a quella solidarietà e collaborazione a cui ho già accennato. Rimane il fatto però che la mia maggiore attività di studioso si è concentrata tra medio evo e rinascimento, con preferenza particolare per Dante e per il ’400-’500, e per ricerche prevalentemente filologiche. Tale limitazione richiede forse qualche ulteriore spiegazione. Non voglio allegare ragioni di tempo e di altri impegni. I motivi sono diversi e voluti. Si tratta in parte di gusto personale, ma soprattutto della mia, certo non peregrina convinzione, che il ’400-’500 costituisca un’epoca cruciale per lo sviluppo della civiltà italiana ed europea. Nessuno forse più dell’insigne collega Garin ha lavorato per illustrare la verità per la storia del pensiero; ma per questo e più ancora per altri aspetti egli sarebbe forse d’accordo che siamo ancora lontani dall’intendere completamente quel secolo complesso che è il ’400. Certo è che non ci avvicineremo di più senza ulteriori scavi e senza la preparazione di testi attendibili, fondata sulla sicura conoscenza dei loro mezzi di espressione e delle loro fonti. Su questi testi e sulla conoscenza delle circostanze e degli avvenimenti storici si può sperare di poter fondare nuove interpretazioni, o almeno garantire la saldezza di conclusioni già raggiunte da altri. Naturalmente non nego né tolgo importanza ad altri tipi di ricerca e di studio; insisto semplicemente sull’importanza degli studi filologico-storici, che considero basilari. Oggi mi sono stati fatti complimenti, e mi compiaccio e sono vivamente grato di quanto è stato detto sul mio conto. Tra i complimenti fattimi da altri in passato, ma non sempre come oggi intenzionalmente, ricordo particolarmente quello di un mio allievo della Yale University, il quale mi accusava di avergli tolto completamente la fiducia nella parola stampata. Più recentemente nella sua recensione dei miei “Cinque saggi su Dante” Mario Marti, confrontandomi con un altro studioso che non occorre qui nominare, scriveva: “sono concepiti nel taglio e nella misura di una metodologia estremamente concreta e si direbbe positivistica, nella quale ogni affermazione poggia su dati di fatto precisi, insomma su una documentazione di base”. Osservazione, credo, giusta, in cui riconosco benissimo il mio pragmatismo, forse tipicamente inglese, che ritengo come indicazione di un certo pregio ma allo stesso tempo anche delle limitazioni delle mie ricerche. “Non omnia possumus omnes”. Si fa quel che si può. Se ho potuto dare qualche contributo allo studio della storia della lingua italiana, come oggi mi si cerca di persuadere, assegnandomi questo magnifico premio sono oltremodo contento. E se quanto ho detto di me non basta – come temo non basti – a giustificare la mia presenza qui oggi, almeno “vagliami il lungo studio e ’l grande amore”. Grazie, Signor Presidente, a Lei e ai Rotary Italiani dell’ospitalità accordatami in questi giorni; grazie a tutti voi, che siete venuti ad assistere a questa cerimonia in mio onore; e grazie all’artista Emilio Greco, che ha creato per me questo bellissimo ricordo di una delle più grate e memorabili occasioni della mia vita.