Pisa, ottobre 1987
Discorso del Vincitore del Premio Galilei
Lo studio è un’occupazione solitaria. Da soli nelle nostre ricerche e in classe con i nostri studenti reinventiamo il passato. Per lo più ciò è un fatto positivo e ben si adatta al temperamento dello studioso. Tuttavia, talvolta, sapere che qualcuno ci ha ascoltati ci rincuora. Sono molto commosso e compiaciuto di ricevere il Premio Galileo Galilei, perché questo significa che sono riuscito a comunicare qualcosa. Venire oggi a Pisa è per me una prova che tutti voi qui e in particolar modo gli insigni membri della giuria, le opere dei quali rispetto ed ammiro, avete riconosciuto come valido il mio tentativo di comprendere il passato interpretando le sue testimonianze. Un premio come il vostro mi aiuta a dare una giustificazione alla mia vita e di ciò vi sono profondamente grato. Sono rimasto molto sorpreso quando Alberto Gallo mi ha telefonato per darmi la lieta notizia, e la mia sorpresa era dovuta a due buoni motivi: in primo luogo non ho fatto ancora abbastanza per giustificare un tale riconoscimento. Dopo parecchi anni di lavoro preliminare, ho appena iniziato a dire le cose che voglio dire. Semplicemente non capisco ancora abbastanza la cultura del passato per giustificare il fatto che mi sia stato assegnato un tale premio. Sono ancora all’inizio del mio lavoro e rimane molto da fare. In secondo luogo – e spero che mi perdonerete se sottolineo un elemento importante in questa forma – mi ha sorpreso sapere di aver contribuito in qualche modo alla comprensione della cultura italiana, dal momento che in effetti non ho mai pensato a me stesso come a uno specialista di studi italiani, come ad un italianista in senso stretto o pregiudiziale. Avrei detto piuttosto di essere interessato alla cultura europea in generale. Ma mi accorgo ora di essere stato in effetti un italianista malgré moi. Spessissimo mi sono confrontato con problemi italiani in quanto meglio esprimevano e rivelavano i miei interessi centrali. Se io posso con orgoglio proclamarmi un italianista, ciò è dovuto al ruolo centrale che l’Italia ha avuto sempre nella formazione della cultura europea. Prima che questa splendida ed indimenticabile giornata mi inducesse a dare una valutazione del mio operato e lo chiarisse, avrei detto che il mio lavoro si caratterizzava per una certa mancanza di centro focale, per una qualità eclettica che trovava giustificazione in parte nella mia curiosità per aspetti molteplici, ed in parte nel semplice fatto che sono americano e perciò abituato a risolvere i problemi pragmaticamente ed a rifuggire da formulazioni teoriche eccessivamente ambiziose. E tuttavia mi accorgo che almeno due motivi centrali si possono individuare attraverso la maggior parte della mia produzione. Sono sempre stato e continuo ad essere dell’idea che dovremmo studiare la musica all’interno di un più ampio contesto culturale. Ho ritenuto importante dedicare parte delle mie energie al tentativo di comprendere come il carattere della musica sia stato modellato in vari tempi dalle richieste sociali ed intellettuali che di essa venivano fatte e comunque queste richieste hanno fatto sì che la musica avesse una forma ed un suono particolari. Ho cercato di cogliere anche gli aspetti in cui la musica ha modificato ed arricchito sia la letteratura che le belle arti e come, per converso, esse hanno influenzato la natura della musica in tempi e luoghi particolari e il corso degli eventi della sua storia. Ho cercato di scoprire dove potevo qualcosa della storia sociale della musica: come funzionavano le istituzioni musicali, e quando, dove, come, e perché veniva commissionata, composta ed eseguita musica. La mia prima opera di ampio respiro, la tesi di Ph. D. scritta all’Università di Harvard sotto la supervisione di John Ward, concerneva la musica del teatro secolare francese nei secoli XV e XVI; qui tentavo di isolare un repertorio di pezzi sopravvissuti appropriati a particolari occasioni sociali. Da allora ho continuato a tentare di capire il posto della musica nella società, e non esagero se dico che ho preso a modello l’opera di uno dei membri della giuria del premio Galilei, Nino Pirrotta, uno studioso con il quale malauguratamente non ho mai avuto il piacere di studiare (poiché venne a Harvard dopo che era finito il mio corso di studi), ma che mi ha aiutato innumerevoli volte da allora, e che ha influenzato me e il mio lavoro più di quanto egli non sappia. In secondo luogo sempre mi ha affascinato sapere come si suonasse effettivamente la musica, come fosse eseguita, nel lontano passato. Sono arrivato alla musicologia come esecutore e il dirigere un Collegium Musicum all’Università di Chicago per più di venti anni è stato sempre un catalizzatore importante per il mio lavoro di studioso. La mia esperienza con gli studenti esecutori mi ha insegnato ad apprezzare l’interrelazione tra le verità più o meno verificabili degli studiosi e l’immaginazione artistica e la sensibilità del musicista, ma mi ha altresì insegnato che non avremo probabilmente mai chiare, facili ed immediate risposte a molte questioni che gli esecutori (come pure gli studiosi) si pongono. In ultima istanza non potremo conoscere mai realmente il passato ed i musicisti devono infondere nel loro lavoro convinzione artistica e una sensibile traduzione per gli ascoltatori dello stato attuale di ciò che tradizionalmente chiamiamo conoscenza dotta ma che bisognerebbe chiamare piuttosto l’incessante dibattito dotto sulla natura della storia. Il mio ovvio interesse e la mia attività nel campo dell’esecuzione certamente indussero il mio relatore della tesi, John Ward, a chiedermi di lavorare alla bibliografia della musica strumentale del XVI secolo che egli aveva iniziato, ma che io infine pubblicai. Questo fu in effetti il mio primo lavoro italiano, perché, sebbene vi sia elencata e descritta tutta la musica strumentale pubblicata nel XVI secolo – in molti paesi europei – la parte del leone nella musica per liuto, tastiera e insieme strumentale fu scritta e pubblicata in Italia e la maggior parte degli eminenti virtuosi registrati nel mio lavoro nacque o lavorò in Italia. Solo dopo che la mia dissertazione sul teatro francese e la bibliografia strumentale furono portate a compimento ebbi l’idea di sobbarcarmi il compito ben più arduo e intellettualmente impegnativo di raccogliere, valutare e tentare di capire la musica del teatro italiano del XVI secolo. Per iniziare questo lavoro mi recai nel 1963 alla Villa I Tatti a Firenze, per il primo dei due meravigliosi anni accademici passati là, dove potei finalmente apprezzare in maniera diretta l’ambiente elegante e stimolante d’Italia. Non ho mai scritto il libro che avevo in mente sulla musica teatrale italiana, sebbene recentemente sia tornato su questo progetto che un giorno potrei portare a compimento. La vita alla Villa I Tatti, sebbene ricca di fermenti per lo spirito e l’intelletto, fu un’esperienza piuttosto pan-europea che ‘puramente’ italiana, poiché, a quel tempo almeno, gli studiosi ospiti godevano di un certo splendido isolamento dalle tensioni della vita quotidiana. Fu tuttavia durante il primo di quegli anni fiorentini che ebbi stretto contatto con l’ordito della vita italiana, ed imparai tramite l’esperienza ad apprezzare l’opera italiana del XVII secolo. Rolf Rapp, uno della prima generazione di musicisti tedeschi del XX secolo ad essere attivamente impegnato nell’esecuzione di musica antica, viveva a Firenze da molti anni, ed aveva là l’unico gruppo di musica antica. Mi invitò a suonare flauto dolce e viola da gamba col suo gruppo quel primo anno e demmo diversi concerti a Firenze e nei dintorni e successivamente facemmo una tournée di circa dieci giorni in Germania. Oltre al puro divertimento di viaggiare per la Germania con cinque o sei musicisti italiani – uno dei più cari ricordi della mia vita – imparai durante quei dieci giorni che l’Euridice di Jacopo Peri (la prima opera sopravvissuta dalla quale Rapp aveva scelto dei brani per i nostri programmi) aveva effettivamente il potere di commuovere la gente, perfino il nostro pubblico di Germania, che non conosceva l’italiano molto meglio di come lo conoscessi io. Quell’esperienza mi indusse a preparare un’edizione dell’opera, che eseguii con i miei studenti a Chicago ed infine pubblicai. Fu questo incontro iniziale con un’opera molto particolare che risvegliò la mia curiosità sull’opera italiana in generale e mi condusse, molti anni dopo, alla decisione di preparare edizioni in facsimile di quasi cento opere italiane dei secoli XVII e XVIII, facsimili che resero disponibile per lo studio un repertorio importantissimo in precedenza accessibile solo agli specialisti. La preparazione dei facsimili Garland fu per me una grande avventura che mi consentì di scoprire ed esplorare un mondo che quasi ignoravo e che mi indusse a diventare un appassionato collezionista di libretti d’opera italiana e di altri libri antichi del XVI, XVII e XVIII secolo. Uno dei pezzi più pregiati della collezione è la lettera che Piero Strozzi scrisse a Giulio Caccini, quando il musicista decise di abbandonare la sua più o meno democratica Firenze d’adozione per rifugiarsi nell’altezzosa ed arrogante Genova, dove, secondo lo Strozzi, sarebbe stato trattato come poco più che un servo, una lettera che ho cercato di spiegare in uno dei miei saggi preferiti. Ad ogni buon conto non affermo di avere particolare competenza della musica del XVII o del XVIII secolo; ho per essa soltanto un innamoramento e un rammarico per il fatto che non c’è abbastanza tempo per fare tutte le cose che si vorrebbero fare. In questo momento sono interessato, a quanto pare, alla musica del XVI secolo, in particolare a quella scritta dopo il primo quarto del secolo, un periodo che mi sembra essere tra i più negletti e misconosciuti, sebbene sia probabile che tutti gli studiosi avvertano lo stesso vuoto riguardo ai repertori che volta a volta studiano. Come al solito, ho iniziato il mio lavoro sul XVI sec. con uno scavo bibliografico, raccogliendo e evidenziando i dati, senza i quali non si può sapere di che cosa si parla. Mi riferisco non soltanto alla mia bibliografia strumentale, ma anche al mio volume per il Répertoire international des sources musicales (RISM), che elenca e descrive i contenuti di tutte le antologie pubblicate tra il 1500 ed il 1550, un’opera che ho infine portato a termine dopo averla trascinata per troppi anni e che dovrebbe comparire tra un anno o due. Il mio volume RISM, come la bibliografia strumentale, comprende notizie sulla musica inglese, francese, tedesca e spagnola oltre che italiana, ma ancora una volta l’Italia vi svolge un ruolo cruciale. Ottaviano Petrucci, dopo tutto, fu il primo grande editore di musica, che fece di Venezia il centro della stampa musicale nel tardo Rinascimento, tradizione, questa, continuata nella Serenissima Repubblica da eminenti uomini come, tra molti altri, Antonio Gardane (un francese naturalizzato) e Ottaviano Scotto. Nel mio lavoro sul XVI sec. ho tentato anche di esplorare questioni sul modo in cui veniva eseguita la musica in quel tempo, questioni che mi hanno inevitabilmente riportato più volte in Italia. Nel mio libro sul modo in cui ci si aspettava che i musicisti abbellissero le ‘semplici’ note che trovavano nei loro libri manoscritti o stampati con ornamenti più o meno elaborati, ho dovuto affidarmi per lo più alla testimonianza di musicisti italiani o di oltremontani che avevano passato gran parte della loro vita in Italia. Nella mia serie di saggi probabilmente ancora non finita sulle convenzioni della trasposizione – cioè, sul modo in cui gli strumentalisti adattavano ciò che vedevano sulla pagina alle forze e alle debolezze dei loro strumenti facendo alzare o abbassare il tono – ho cercato di mostrare come gli usi italiani interagivano con quelli di Francia e di Germania. In tutti questi saggi e in quelli sugli arrangiamenti per solo liuto di musica vocale di tutti i tipi, pubblicati per commemorare le abilità di un certo numero di autentici virtuosi del Rinascimento – per lo più italiani – mi sono interessato ad indagare i vari modi in cui le note scritte erano effettivamente tradotte in suoni effettivi. Le questioni sulla natura delle testimonianze scritte e della loro relazione con i suoni effettivamente uditi dagli appassionati di musica cinquecento anni fa mi hanno indotto altresì a studiare quegli affascinanti libri di ricordi che descrivono con ricchi dettagli le feste organizzate in varie occasioni di stato, per lo più matrimoni aristocratici. Il mio libro sulla serie di feste organizzate per commemorare vari matrimoni dei Medici in Firenze nel XVI sec., e parecchi altri miei saggi su feste di stato a Firenze e Ferrara trattavano in gran parte delle convenzioni dell’esecuzione musicale. Ma mi accorgo che questi libri sulle feste in concreto ci offrono particolari più ricchi sulla vita intellettuale dei tempi – quanto meno ci mostrano come i cortigiani adulassero il senso dell’importanza dinastica dei loro governanti, ma ci parlano anche del mito e del simbolo del Rinascimento, e delle istanze intellettuali che dominarono la vita di corte in un particolare momento – e spero che in futuro potrò chiarire alcuni di questi aspetti delle feste del Rinascimento, in modo da mostrare l’interazione tra ciò che uomini e donne del Rinascimento credevano e come si comportavano, e in modo da mostrare come queste questioni si traducono in termini puramente musicali. Né ho mai trovato tempo per indagare tanto dettagliatamente quanto volevo le questioni concernenti il madrigale ed il mottetto – in Italia e altrove – sebbene entrambi i tipi di musica abbiano sempre avuto un posto importante nei programmi dei concerti del Collegium Musicum dell’Università di Chicago, un’organizzazione che è sempre stata una parte centrale della mia vita nel consentirmi di imparare a conoscere vari repertori di musica che mi interessano. Mi sono interessato anche di problemi editoriali, anche se da molto tempo mi sono reso conto che è impossibile perfino immaginare un’edizione definitiva. Tuttavia ritengo che ogni generazione debba impegnarsi nell’impossibile compito di tentare di presentare in forma scritta una versione della musica che ritenga sia la più vicina possibile alle intenzioni del compositore, pur sapendo bene che non possediamo in effetti l’informazione necessaria (così che dobbiamo in certa misura riempire le lacune con ciò che noi riteniamo fossero le intenzioni del compositore, usando delle intuizioni che sono inevitabilmente influenzate dalle nostre stesse esperienze), e sapendo in ogni caso che nel tardo Medio Evo e nel Rinascimento i compositori lasciavano gli esecutori liberi di prendere da soli delle decisioni che successivamente i compositori fissavano per scritto. In breve, è semplicemente impossibile fare un’edizione definitiva della musica antica, e si discute quindi se sia preferibile fare una collazione di edizioni delle opere complete di un singolo maestro, o riprodurre le letture di una singola fonte. In effetti non scorgo nessun conflitto tra le due posizioni, poiché mi appare chiaro che dobbiamo fare entrambe le cose e che da entrambe impariamo cose assai diverse. Molto recentemente ho lavorato con colleghi olandesi, tedeschi ed americani ad una edizione delle opere complete di Josquin des Prez, uno dei più grandi compositori che vissero ed operarono tra la fine del XV secolo e l’inizio del XVI. Mi ha fatto piacere vedere con quanto accanimento abbiamo tentato di elaborare un modello per valutare le testimonianze che abbiamo e per presentarle con efficacia ai nostri lettori. Non so se siamo riusciti o meno – il primo volume di musica è stato pubblicato solo recentemente e la sua sostanziosa relazione critica non è ancora apparsa – ma almeno abbiamo tentato di offrire varianti di lettura, quelle Cenerentole delle edizioni dotte che ogni persona sensata ignora, in un modo che aiuterà gli esecutori ed altri studiosi a capire perché abbiamo preso le decisioni che abbiamo preso e presumibilmente permetterà loro di raggiungere conclusioni indipendenti; nello stesso tempo, abbiamo cercato di offrire ai nostri lettori una versione che riteniamo sia la più vicina possibile nei suoi particolari a ciò che intendeva Josquin. L’altro mio lavoro impegnativo come editore, d’altra parte, riguardava la resa delle letture di una fonte particolare, una grande antologia di musica secolare, preparata a Firenze verso il 1490 ed originariamente di proprietà di Alessandro Braccesi, il predecessore di Machiavelli nella cancelleria fiorentina. L’edizione compare nella serie dei Monumenti della Musica del Rinascimento pubblicata da The University of Chicago Press e riflette l’opinione del suo editore fondatore, Edward Lowinsky, mio collega per molti anni a Chicago, secondo il quale ci occorrono edizioni di documenti musicali particolarmente importanti per controbilanciare l’artificialità delle edizioni di lavori completi: non solo per offrire agli studiosi letture musicali che erano effettivamente usate in tempi e luoghi particolari, ma anche per aiutare noi tutti a comprendere meglio la cultura musicale del passato, pubblicando manoscritti completi o libri stampati, in modo da poter vedere precisamente come i grandi compositori si ponevano in relazione a loro colleghi meno dotati, così che possiamo valutare più equamente tutte quelle composizioni anonime che potrebbero altrimenti cadere nell’oblio, e possiamo farci un’idea più precisa del modo in cui la cultura musicale era effettivamente trasmessa durante il Rinascimento. Ogni volume della serie dei Monumenti, in altre parole, dovrebbe servire come punto di partenza per una più approfondita comprensione di un tempo ed un luogo particolari. Come successore di Lowinsky in qualità di editore generale della serie, ho riflettuto molto su che cosa costituisca un monumento nella storia della musica, ed oggi mi accorgo quanto spesso ho dovuto tener conto del ruolo centrale dell’Italia nella formazione della cultura europea, quando dovevo progettare il futuro della serie. L’ultimo volume, per esempio, riproduce la serie dei mottetti pubblicata da Andrea Antico a Roma negli anni intorno al 1520 e speriamo che i volumi futuri includeranno i madrigali romani editi da Antonio Barre alla metà del XVI sec., l’antologia di musica secolare, Canti C, pubblicata da Ottaviano Petrucci nel 1503, i madrigali, dell’inizio del XVII sec. di Michelangelo Rossi, e varie altre fonti che riflettono l’enorme vitalità della musica italiana durante il Rinascimento. Forse non dovrei parlare qui oggi di Josquin des Prez o della mia edizione di un canzoniere fiorentino dei tempi di Lorenzo il Magnifico. Josquin era probabilmente cittadino francese e ad ogni modo nacque e fu educato nell’Europa del nord e tornò in patria alla fine della sua vita. E il mio canzoniere fiorentino contiene in gran parte composizioni che erano originariamente adattamenti musicali, ad opera per lo più di compositori franco-fiamminghi (tra i quali Alexander Agricola, Antoine Busnois, Heinrich Isaac e Johannes Martini), di poesie d’amore in francese. Ma Josquin fece gran parte della sua carriera in Italia, lavorando a Milano in cattedrale e per la corte degli Sforza, e più tardi per il Cardinale Ascanio Sforza, per la cappella papale a Roma, e per il Duca di Ferrara. Nonostante che provenisse da oltralpe, la sua carriera e la sua musica riflettono la natura della cultura italiana a cavallo tra il XV e il XVI secolo. E il mio canzoniere fiorentino, anche se contiene per lo più musica franco-fiamminga, dimostra l’importanza della decisione di Lowinsky di pubblicare monumenti musicali completi, poiché da ciò apprendiamo più chiaramente che in qualunque altro modo che cosa si pensava fosse la cultura musicale secolare nella Firenze del tardo Quattrocento. Tra le altre cose ci mostra, presentando molte composizioni modellate su altre, che rapporti esistessero tra i compositori, chi volessero emulare, a chi volessero rendere omaggio o con chi volessero competere, e pertanto che cosa essi avevano imparato da bambini, nelle loro sedi nordiche, dei loro studi di retorica latina con le sue idee sulla imitatio. Molto recentemente ho spinto i miei interessi nei confronti della cultura italiana all’indietro nel tempo fino al XIV sec., in un modo che contempera vari miei interessi. In maniera caratteristica per me, ho iniziato con del lavoro bibliografico. Attualmente sono impegnato a tentare di elencare e descrivere tutte le opere sopravvissute di arte figurativa a soggetto musicale prodotte nell’Italia del XIV secolo. Il mio interesse per le opere pittoriche, come molte cose che ho fatto, è nato per caso, ed è sorto dal mio interesse per l’esecuzione della musica. Quando ho cominciato a collezionare pitture, speravo che esse mi potessero dire in modo semplice e diretto ciò che desideravo sapere sugli strumenti musicali e sul modo in cui era eseguita la musica nel passato. A poco a poco, tuttavia, ho cominciato a vedere quanto, in realtà, siano complicate queste questioni. Per imparare il più possibile dai dipinti, dobbiamo prima imparare a guardarli come fanno gli storici dell’arte e tentare di scoprire le fonti degli artisti e ciò che volevano rappresentare. Inoltre dobbiamo avere teorie altamente sviluppate sulle istituzioni musicali, sui generi della musica, e sul modo in cui le fonti musicali esistenti si correlano all’insieme della musica che una volta esisteva, ciò che Nino Pirrotta chiamerebbe la relazione tra le tradizioni musicali scritte e quelle non scritte. Sto appena cominciando ad organizzare i miei pensieri su questi argomenti in una serie di saggi su particolari strumenti e sui loro usi – l’arpa, il violino, il salterio e gli strumenti a fiato, per esempio – ed anche su varie più ampie questioni culturali e di storia dell’arte. Che tipo di musica si suonava ai matrimoni del Trecento? Come possiamo spiegare gli atteggiamenti ambivalenti nei confronti della musica rappresentati in vari dipinti e miniature di manoscritti, dove la musica è vista talvolta come un’attività degna dei santi e degli angeli, e talvolta come un’occupazione che conduce direttamente alla dannazione ed è indegna di cristiani seri? E come possiamo spiegare perché gli angeli erano così spesso rappresentati come musicisti sia negli affreschi e nelle tavole intese per l’esposizione al pubblico nelle chiese sia in quelle commissionate per uso devozionale in case private? In breve, gli studi di iconografia musicale ci conducono direttamente a questioni di contesto culturale e a problemi di come comprendere la musica del passato nel suo ambiente sociale. Spero durante l’anno prossimo di riunire i miei pensieri sulla musica e i dipinti nell’Italia del XIV sec. in un libro che è già finito per più di metà, e di far seguire a breve distanza un album di fotografie per la serie tedesca orientale Musikgeschichte in Bildern, che vorrà mostrare come siano mutati gli atteggiamenti nei confronti della musica dal XIII al XIV secolo, come una tradizione pan-europea di rappresentazione simbolica o allegorica sia stata trasformata, in parte da artisti italiani, in un ritratto di vita quotidiana e come una traduzione di storie agiografiche, bibliche e mitologiche in termini quotidiani. In breve, sono tornato ancora una volta a studi italiani non come inizialmente italianista ma perché pittori, musicisti ed intellettuali italiani crearono nuove tradizioni e nuovi schemi di pensiero che trasformarono la cultura europea. Noto con sorpresa che ho pubblicato studi che trattano di musica italiana in un arco di cinque secoli, dal XIV al XVIII secolo. Sembrerebbe dunque che, dopo tutto, io sia un italianista e tra i motivi per i quali sono grato alla giuria del Premio Galileo Galilei, non ultimo c’è il fatto che essa mi ha mostrato questo semplice dato. Vorrei solo sentirmi più degno di esso, vorrei poter pensare più alle cose che so piuttosto che alle cose che ancora spero di scoprire, o vorrei potermi convincere che possiamo veramente sapere qualcosa sul passato, che è la nostra comune eredità. Invidio quel grande uomo di cui il Premio porta il nome, che poté riasserire le sue conclusioni con certezza e fiducia in sé stesso anche dopo esser stato costretto con la forza a ripensare le sue prove. Gli scienziati possono trovar conforto nel fatto che la terra si muove davvero, ma noi umanisti siamo condannati alla consapevolezza che è la nostra visione del lontano passato che si muove costantemente, a mano a mano che noi la reinventiamo di nuovo ad ogni generazione.