Pisa, ottobre 1988
Discorso del Vincitore del Premio Galilei
Devo confessare che il conferimento del Premio Galileo Galilei dei Rotary italiani per l’anno 1988 costituisce per me un onore inatteso, che mi riempie nondimeno di grande gioia e gratitudine. Del tutto inatteso è per me tale conferimento, per il fatto che io a differenza delle maggioranza di coloro che hanno ricevuto il Premio prima di me non posso rivendicare il merito di avere adempiuto con il lavoro di tutta la mia vita il presupposto di tale riconoscimento, che è quello di avere contribuito al progresso dello studio della cultura italiana e del suo significato per l’Europa. Una volta sola nella mia vita son forse riuscito a prestare un tale contributo, e cioè nel mio scritto per l’abilitazione su Die Idee der Sprache in der Tradition des Humanismus von Dante bis Vico (pubblicazione che è stata tradotta in italiano nel 1975, con il titolo: L’idea di lingua nella tradizione dell’umanesimo da Dante a Vico). Come sono giunto a questo lavoro, e quale significato esso ha nel contesto complessivo del mio pensiero filosofico? Per rispondere a queste domande devo iniziare ancora una volta con una confessione: anche per l’elaborazione del mio libro sull’umanesimo italiano io non ero affatto preparato in forma speciale – vale a dire per mezzo di uno studio di Romanistica o perlomeno della lingua italiana -. Il tema mi si era presentato in un primo momento piuttosto come quello di un capitolo di un libro che avevo in progetto di realizzare su “L’idea di lingua nel pensiero dell’età moderna” per il quale, a partire dal 1950, per anni, andai raccogliendo materiale. Il tema di questo progetto di libro, a sua volta, si era per me configurato a partire da un interesse filosofico attuale per il problema della lingua in generale e da un interesse ermeneutico per la storia dello spirito occidentale nel suo complesso. Il mio interesse filosofico scaturiva dalla precoce intuizione – che io considero ancora oggi una nozione fondamentale – del fatto che l’idea di lingua, nei suoi molteplici aspetti, offre una prospettiva-chiave per la comprensione del pensiero filosofico del nostro tempo, nei suoi svariati indirizzi. L’interesse storico-ermeneutico, d’altro lato, corrispondeva alla mia formazione come studente di storia e alla mia convinzione che anche sui problemi sistematici della discussione filosofica del presente può essere fatta chiarezza solo a condizione di una sufficiente ricostruzione ermeneutica della storia che precede il colloquio attuale. A tutto ciò venne ad aggiungersi una circostanza esterna. Il mio maestro, Erich Rothacker, che nei primi anni Cinquanta era impegnato nel progettare e promuovere l’Historisches Wörterbuch der Philosophie (successivamente curato ed edito da Joachim Ritter), mi aveva incaricato di redigere, in veste di collaboratore scientifico, alcuni lavori preparatori per questo Dizionario – in un primo tempo raccolti nel corpo dell’Archiv für Begriffgeschichte (1955 e sgg.). In breve: la cornice esteriore del mio lavoro d’abilitazione doveva essere quella di una storia dei concetti o delle idee. Così io mi proposi in un primo momento l’ampio tema “L’idea di lingua nel pensiero dell’età moderna”. Come dunque avvenne che, dato questo contesto generale, giunsi poi a concentrarmi invece sulla storia dell’umanesimo italiano nella specifica delimitazione “da Dante a Vico”? Io volevo scrivere la mia ricostruzione della storia dell’idea di lingua in Europa in prospettiva filosofica, non però in quella della storia della filosofia tradizionale, per la quale la lingua era solo un oggetto della filosofia tra altri possibili oggetti, e non primariamente una condizione soggettiva—intersoggettiva della filosofia medesima. Perciò, per la mia ricostruzione della storia del pensiero occidentale io non potevo rifarmi alle usuali ripartizioni di periodi e indirizzi, che erano orientate primariamente in chiave di ontologia oppure di teoria della conoscenza. Io volevo piuttosto scrivere una storia della filosofia del linguaggio precisamente dal punto di vista della filosofia del linguaggio, e questo significava per me che dovevo tenere in considerazione non solo le tematizzazioni della lingua di tipo esplicitamente filosofico e logico-epistemologico, ma, oltre a ciò, anche i documenti della presa di coscienza prefilosofica della lingua; cosi, per esempio, anche le attestazioni della presa di coscienza riflessiva della madrelingua nelle nazioni europee, e quelle della programmatica linguistica di tipo religioso, politico ed estetico-letterario. Anche questi documenti prefilosofici della presa di coscienza riflessiva della lingua mi sembravano rilevanti da un punto di vista di filosofia del linguaggio. A partire da questa formulazione euristico-speculativa del problema, pervenni in primo luogo, nel corso delle mie ricerche e della raccolta di materiale lungo gli anni Cinquanta, alla distinzione e ricostruzione approssimativamente di quattro tradizioni che nel tardo medioevo e all’inizio dell’età moderna hanno determinato in modo paradigmatico il pensiero europeo sulla lingua: 1. La caratterizzazione nominalistica della logica linguistica scolastica (per esempio della teoria della supposizione), che – attraverso la mediazione di Ockham – forma in particolare il retroterra della filosofia del linguaggio empirista nell’età moderna. 2. L’arte dei segni della “mathesis universalis”, che, da Raimondo Lullo a Leibniz, costituisce quel programma della lingua ideale quale lingua di calcolo, che nel ventesimo secolo viene a determinare l’idea di linguaggio propria della logica matematica, così come quella della teoria dell’informazione e della scienza dei computer. 3. La tradizione, alla precedente polarmente contrapposta, della mistica del Logos, che ha ispirato il pensiero tedesco tra Maestro Eckhart e Jakob Böhme – in parte anche Niccolò da Cusa e Martin Lutero – e più tardi sbocca, per il tramite di Hamann, nella filosofia del linguaggio dell’idealismo tedesco e di Wilhelm von Humboldt. 4. La tradizione del pensiero umanistico del linguaggio, che si è sviluppata soprattutto in Italia, nell’arco di tempo che va da Dante a Vico. Quale parte ha avuto questa tradizione dell’umanesimo linguistico, da me espressamente delimitata, nel contesto complessivo della costituzione del pensiero linguistico europeo? Il risultato della distinzione e ricostruzione delle quattro tradizioni identificate mi sembrò consistere prima di tutto nel fatto che esse condussero ad un concetto di lingua non solo notevolmente più ampio, ma anche più elevato, di quello predominante nella moderna filosofia del linguaggio, vale a dire della nozione di lingua come uno strumento di segni al servizio del pensiero – che viene postulato come prelinguistico -. Mi sembra infatti che proprio quest’ultimo presupposto determini il concetto tecnico-scientifico di lingua, che nel presente è venuto a costituirsi a partire dalla sintesi del nominalismo-empirismo con l’idea di lingua propria della mathesis universalis. Qui il linguaggio, e in corrispondenza ad esso il Logos, è concepito come “organon” della costruzione simbolica del mondo, e a tale riguardo come strumento di controllo e dominio sul mondo che governa tutti gli altri strumenti. In questo concetto di lingua non viene al contrario tenuto conto della circostanza che la lingua cosiddetta naturale, storicamente divenuta, ha sempre anche contribuito – quale metalinguaggio ultimo della costruzione simbolica del mondo – a marcare la precomprensione del mondo e quindi le finalità pratico-morali degli uomini – anche quelle dei soggetti della civilizzazione tecnico-scientifica -. Nel concetto tecnico-scientifico della lingua non viene cioè preso in considerazione in primo luogo il fatto che l’intesa e la formazione del consenso comunicativo tra gli uomini costituiscono una condizione di possibilità e validità della obiettivazione del mondo mediante costruzione simbolica (una condizione che da parte sua è data non obiettivamente), e, in secondo luogo, il fatto che la lingua, storicamente divenuta, funge per così dire quale metaistituzione di tutte le istituzioni sociali nella dimensione dell’intesa comunicativa. Ritengo che queste ultime funzioni, che io ho cercato di determinare come le funzioni ermeneutico-trascendentali del Logos linguistico, siano state pre-pensate per una parte nella tradizione della mistica del Logos tedesca e per un’altra nella tradizione dell’umanesimo linguistico italiano. Detto più precisamente: si trattava qui in prevalenza non di teorie filosofico-scientifiche esplicitamente costituite – come quelle che ritroviamo nella logica linguistica scolastica e nelle tradizioni dell’empirismo-nominalismo e della “mathesis universalis” -, ma piuttosto di stadi preliminari di riflessione filosofica, che sono da comprendersi come espressione di un rapporto linguistico vissuto e che restano da ricostruire nel loro contenuto di senso filosoficamente rilevante. In questo senso la figura di pensiero della nascita del Logos nell’anima dell’uomo, che si incontra nella letteratura mistico-religiosa dell’età della Riforma e che in chiave di filosofia del linguaggio viene elaborata per la prima volta da Jakob Böhme, tale figura di pensiero mi sembra che rappresenti lo stadio preliminare di una filosofia trascendentale del linguaggio; uno stadio preliminare, per altro, in cui resta sostanzialmente sacrificata la dimensione intersoggettiva, storico-sociale della lingua. Vale a dire proprio quella che io trovai pre-pensata nella ‘filosofia segreta’ dell’umanesimo linguistico italiano. Con quest’ultima notazione vengo dunque finalmente a rispondere più precisamente alla domanda sulle ragioni della mia delimitazione di questa tradizione, e sul perché mi sono concentrato sulla storia dello spirito italiano “da Dante a Vico”. Nella mia precomprensione della tradizione dell’umanesimo linguistico italiano io ero senz’altro ispirato anche dall’osservazione, un poco sarcastica, del grande romanista Ernst Robert Curtius, il quale ha detto una volta che qualcosa come una filosofia dell’umanesimo non esiste; per quanto riguarda quest’ultimo, si tratterebbe piuttosto essenzialmente della ideologia domestica della tradizione della retorica – per esempio dell’ideale ciceroniano dello stile – e della sua applicazione alla poetica dopo la depoliticizzazione della retorica nell’epoca dell’impero romano. In effetti, se si considerano come rappresentativi per l’umanesimo linguistico non filosofi rinascimentali come Ficino, Pico della Mirandola o addirittura Machiavelli, ma Petrarca, Salutati, Poggio Bracciolini, Sicco Polenton, Leonardo Bruni e Lorenzo Valla, allora l’osservazione di Ernst Robert Curtius è pienamente verificabile. Anch’io non conterei nessuno di loro tra i grandi filosofi, e neppure tra i grandi filosofi del linguaggio. Ma proprio la loro ideologia retorica contenuta in declamazioni e proclamazioni – anche nella polemica contro la logica linguistica scolastica -, rappresenta nel suo complesso una filosofia del linguaggio segreta – e cioè ancora da elaborare. I tipici rappresentanti dell’umanesimo linguistico fanno cioè implicitamente valere la dimensione pragmatica (per usare una parola moderna) della lingua, riconoscendo in questo un’integrazione e un presupposto della tematizzazione logico-sintattica e logico-semantica della lingua, che nella filosofia scolastica erano rappresentati in forma molto unilaterale. Formulato ancor più nettamente: gli esponenti dell’umanesimo linguistico esprimono la fondata protesta della ragion pratica e degli studia humanitatis orientati ermeneuticamente, contro una suddivisione e distribuzione delle dimensioni del Logos, che vengono attribuite al filosofo Teofrasto, discepolo di Aristotele. Secondo tale ripartizione, infatti, la filosofia deve occuparsi solo del “rapporto del Logos [discorso] con le cose” (prágmata), mentre il “rapporto del Logos [discorso] con gli ascoltatori”, dunque il rapporto comunicativo deve essere oggetto unicamente della retorica e della poetica, a sua volta orientata alla retorica. Esattamente così come da questo topos di Teofrasto, il compito della filosofia è stato determinato dalla filosofia analitica del nostro secolo, quando ai suoi inizi – per esempio in Carnap – essa pose alla logica della scienza il compito di fare astrazione dalla dimensione pragmatica della lingua per affidarla alla psicologia empirica. Nel periodo successivo si è tuttavia comprovato che neppure l’epistemologia delle scienze naturali – per non parlare della epistemologia delle ermeneutiche scienze dell’uomo – può fare astrazione dalla riflessione sulla dimensione pragmatica; dunque, per esempio, dalla precomprensione e dal consenso implicito degli scienziati quali membri di una comunità di comunicazione. A tale riguardo è valida la tesi fondamentale della “nouvelle rhétorique” di Chaïm Perelman, secondo cui il discorso argomentativo deve necessariamente prendere come proprio punto di partenza non semplicemente premesse vere, bensì premesse accettate, e questo anche – addirittura – per la teoria filosofica della scienza. Anch’essa deve riflettere sui presupposti retorico-ermeneutici del discorso argomentativo, i quali vengono a costituirsi attraverso la topica del sensus communis, che è di volta in volta riscontrabile, con valore indubitabile per gli scienziati, in una data epoca storica. In questo senso vale non solo per gli esponenti della retorica, ma anche per i teorici della scienza il famoso rilievo di Cicerone, cui fece ricorso Giambattista Vico contro Cartesio, cioè che la topica, come ars inveniendi del discorso, precede per natura la critica, come ars judicandi Con queste annotazioni ho cercato di chiarire – in via approssimativa – il primo essenziale motivo del mio interesse per la tradizione dell’umanesimo linguistico italiano. E da ultimo ho già accennato anche perché, nel mio scritto per l’abilitazione, io ho preso in esame e considerato Giambattista Vico – in particolare l’autore dello scritto giovanile De nostri temporis studiorum ratione – come ‘esecutore testamentario’ – per così dire come la “civetta di Minerva” – dell’umanesimo orientato retoricamente. Secondo la mia valutazione, Giambattista Vico è stato un pensatore veramente grande: il primo classico europeo della ricostruzione storico-ermeneutica del “mondo civile”. Come tale egli ha scoperto, nella Scienza Nuova, la connessione interna tra la lingua della poesia ed il pensiero mitico-arcaico, e con ciò ha trasceso interamente il concetto di lingua, orientato retoricamente, dell’umanesimo. A tale riguardo l’opera di Vico, anche presa di per sé sola, ha rappresentato per me una delle grandi scoperte del mio studio della storia dello spirito italiano. Purtroppo non posso qui soffermarmi più a lungo su questo. Permettetemi però, in conclusione, di illustrare ancora molto brevemente il motivo del mio interesse per il pensiero italiano sulla lingua “a partire da Dante”, nel contesto del mio tentativo di ricostruire le origini del pensiero europeo sulla lingua. Anche per quanto riguarda tali inizi abbiamo a che fare con un complesso di testi e tradizioni che normalmente non viene tematizzato dai filosofi di professione, ma piuttosto dagli studiosi specializzati in Italianistica: mi riferisco cioè alla cosiddetta “questione della lingua”, il cui punto di partenza può essere ravvisato nel trattato di Dante De vulgari eloquentia, e i cui sviluppi successivi conducono, per così dire attraverso l’”umanesimo latino”, all’”umanesimo volgare”. Certamente, io ero a quel tempo ancor meno preparato per la ricostruzione di questa problematica che per quella di una ricostruzione dell’ideologia umanistica della retorica. Ma nel senso della mia formulazione filosofica del problema non potevo semplicemente trascurare il fatto che il contributo specifico dell’umanesimo linguistico italiano ad una concezione della lingua naturale, adeguata dal punto di vista pragmatico ed ermeneutico, risiedeva anche proprio nelle discussioni – ancora del tutto prefilosofiche e prescientifiche -, ed in particolare nei dialoghi polemici, sulla “questione della lingua”. In quell’epoca furono, cioè, elaborate per la prima volta in Europa le categorie essenziali per la comprensione concettuale e la valutazione programmatica – in una certa misura politico-letteraria – delle madri-lingue nazionali. Più tardi, queste categorie si ritroveranno dappertutto in Europa, in un certo qual modo quali topoi della replica della italiana “questione della lingua”: così in Spagna, in Francia, e in Germania, per esempio nella politica linguistica di Martin Opitz ed ancora negli scritti programmatici in lingua tedesca di Leibniz su “l’elevazione ed il miglioramento” della madrelingua. Dopo il mio scritto per l’abilitazione non mi sono più occupato della storia dello spirito italiano e purtroppo non ho potuto fino ad oggi sollevare il mio italiano dalla condizione di una lingua della lettura di testi a quello di una lingua della conversazione – cosa di cui sono tuttora molto spiacente -. I miei lavori successivi, che sono sempre rimasti orientati alla filosofia del linguaggio, li ho dedicati in una prima fase, per molto tempo, alla ricezione e ricostruzione critica della filosofia anglosassone – in particolare del pragmatismo americano -. Successivamente – e cioè a partire dal 1970 – ho intrapreso l’elaborazione di una filosofia sistematica che ho inteso dapprima come ermeneutica trascendentale, più tardi anche come pragmatica trascendentale della lingua o semiotica trascendentale. E tuttavia: dopo tutto quello che ho accennato in precedenza, potrete capire che io considero ancora oggi lo studio dell’umanesimo linguistico italiano come il periodo inaugurale della mia pratica nel pensiero linguistico-pragmatico e linguistico-ermeneutico. A tale riguardo io devo a questo studio un’esperienza-chiave per il mio pensiero storico e filosofico. A ciò si aggiunge il fatto che proprio negli ultimi anni io ho potuto allacciare con i colleghi italiani, in numerose università del vostro paese, un sempre più stretto rapporto di comunicazione e scambio di idee – occasioni nelle quali io ho avuto anche la possibilità di conoscere sempre meglio il paesaggio artistico italiano, così amato da me e da mia moglie. Sono perciò profondamente commosso e pieno di gratitudine per il fatto di essere stato da voi ritenuto degno di ricevere il premio Galileo Galilei: un onore non meritato, che mi fa apparire l’inizio del mio itinerario di pensiero come un compito affrontato ma ancora incompiuto.