Pisa, ottobre 2018
Discorso del Vincitore del Premio Galilei
Intervento di Pierpaolo Faggi
Chiarissimo Prorettore, Onorevole Assessore, Signor Presidente e Signor Segretario della Fondazione, Governatori e Presidenti, Signore e Signori,
quando recentemente mi è stata comunicata l’attribuzione del Premio Galileo Galilei – cosa che grandemente mi onora e mi lusinga e per cui ringrazio la Fondazione e la Commissione valutatrice – mi sono ovviamente chiesto: perché a me? cosa ho fatto per…? E’ stata insomma questa l’occasione per una riflessione sulla mia lunga attività di ricercatore e per quanto essa può aver eventualmente lasciato nella geografia. La risposta che mi sento di dare è che, fin da quando la discussione era agli inizi ed in Italia abbastanza poco seguita, mi sono sforzato in diversi modi di tenere aperta la riflessione sulla questione – oggi peraltro agli onori delle cronache – del degrado ambientale nei Paesi del “Global South” (una volta si diceva “sottosviluppati”), soprattutto nelle regioni caratterizzate da mancanza d’acqua (la cosiddetta “Diagonale Arida”, dal Senegal all’Asia Centrale), e sulle misure attivabili/attivate per contrastarlo. In qualche modo, la mia attività avrebbe seguito ed intercettato attenzioni e paradigmi del rapporto tra questione ambientale e sottosviluppo per un buon quarantennio, a scavalco fra scuole di pensiero internazionali e discussione nazionale.
Una prima fase si può ascrivere agli anni ’70. Gli anni del terzomondismo (il famoso libro di Yves Lacoste), di un grande movimento per spostare gli equilibri economici a vantaggio delle periferie (Carta di Algeri per un Nuovo Ordine Economico Internazionale), del primo grande shock petrolifero con cui l’Occidente si sia trovato a fare i conti, dell’affermarsi della valenza politica della questione ambientale (Conferenza di Stoccolma, 1° Earth Day,…). Sicuramente, uno dei detonatori che svilupparono queste nuove sensibilità e questi inediti processi fu l’evidenza di un problema ambientale che, proprio in quegli anni, stava interessando le aree più povere delle terre asciutte del pianeta: la desertificazione, in particolare nelle regioni marginali degli Stati saheliani, acutizzata da una grande siccità. Non la prima volta che accadeva (almeno altre due volte precedentemente, solo nell’ultimo secolo), ma la prima volta che la televisione la portava nelle case: la desertificazione diventa la prima “environmental global issue”. La discussione e la riflessione si incentravano soprattutto sui meccanismi causali del processo: cause naturali (per esempio, la grande siccità saheliana, appunto, durata dal ’68 al ’73) o cause antropiche (i processi di sovrasfruttamento legati ad agricoltura, allevamento, diboscamento…)? A posteriori, è facile dire che nessuno dei due fattori esaurisce da solo la spiegazione e che è invece necessario considerare le loro interazioni complesse che portano a processi di degrado i quali poi diventano autointensificanti, passando da una dimensione congiunturale ad una strutturale. Si trattava dunque di assumere una visione articolata e multicausale, non lineare ma – come si diceva – “morfogenetica” della desertificazione e di farsi carico, sia in fase analitica che operativa, delle implicazioni di complessità che ne derivavano.
Il contesto politico-economico e quello culturale – anche delle discipline geografiche attente alla questione ambientale – cambiano drasticamente negli anni ’80 e ’90. Emergono, prepotente, la questione del debito dei Paesi in Via di Sviluppo e, a questa associata, la risposta di “austerity” – diremmo oggi – imposta da Fondo Monetario Internazionale e Banca Mondiale. E’ infatti il periodo delle politiche di aggiustamento strutturale che spingono i Paesi indebitati delle periferie a ridurre la spesa pubblica e ad aumentare la privatizzazione delle risorse naturali per, appunto, pareggiare i bilanci e ripagare il debito. Un ruolo centrale assumono in questa prospettiva le risorse delle foreste pluviali (foreste, terra coltivabile, acqua) mentre le terre asciutte si connotano essenzialmente per la possibilità o meno di compensare il loro vincolo fondamentale – la mancanza di piogge – mediante l’irrigazione. Paradossalmente, l’irrigazione viene dunque usata come uno degli strumenti territoriali per assicurare la riproduzione del sistema Stato (una vera e propria autopoiesi, secondo la fortunata terminologia di Humberto Maturana e Francisco Varela) proprio nel momento in cui gli Stati periferici si trovano a dover contrastare i nuovi vincoli finanziari esterni e la conseguente “de-nazionalizzazione” delle loro politiche nazionali, per riprendere la formula di Saskia Sassen. Lavorare per una geografia dell’irrigazione diventa allora una scelta coerente con finalità e caratteristiche del gruppo di ricerca che nel frattempo si andava organizzando a Padova, proprio come gli anni ’70 avevano visto l’attenzione concentrarsi su una geografia della desertificazione. Una geografia dell’irrigazione nelle terre asciutte dei PVS che punta a decodificare la molteplicità dei fenomeni e delle fattispèecie proprio inserendoli in un quadro di intellegibilità connesso con la ricordata autopoiesi dei sistemi statali: parlammo allora di “territorializzazione idraulica”, un processo che tiene conto di finalità, risorse e procedure adottate nelle pratiche irrigue da parte degli Stati e che permette quindi di costruire una metacartografia dell’irrigazione come processo geografico ascrivibile a “Stati forti” e “Stati deboli”, con capacità diversa dunque di resistere ai crescenti condizionamenti internazionali.
Una terza fase di riflessione e di analisi attorno alla questione ambientale delle terre asciutte della periferia si apre con il nuovo millennio. E’ la fase dell’attenzione per la (e delle retoriche sulla) sostenibilità, che diventa il nuovo fil rouge con cui necessariamente affrontare l’intera questione ambientale. Già preannunciata negli anni ’80 dal cosiddetto “Rapporto Brundtland”, ufficialmente sancita a livello internazionale come questione strategica globale nella Conferenza di Rio de Janeiro (1992), essa assume il valore di parametro guida per l’insieme delle politiche di sviluppo previste, appunto, dai Sustainable Development Goals delle Nazioni Unite (2015). E’ una fase in cui diventa necessario passare da una metodologia di riflessione e di analisi ad una maggiormente orientata alla applicazione operativa. Lo sforzo doveva pertanto indirizzarsi verso nuovi percorsi formativi, approfittando anche delle possibilità offerte dai nuovi strumenti normativi e per la collaborazione internazionale tra Atenei. Dapprima attivammo, all’Università di Padova, una Laurea interdipartimentale e interdisciplinare in Cooperazione allo sviluppo, dal 2001 al 2009, che venne poi sostituita nel 2010 da una Laurea Magistrale in Local Development, completamente erogata in lingua inglese con il duplice obbiettivo di sviluppare la competenza linguistica specifica dei laureati e di attirare studenti internazionali. Parallelamente, dal 2011, venne attivato, dopo la selezione europea, il Master Erasmus Mundus “STeDe – Sustainable Territorial Development”. Il corso di studi biennale prevede il 1° semestre a Padova (la dimensione sociale della sostenibilità), il 2° a Leuven (la dimensione ambientale), il 3° a Paris1 (la dimensione economica), il 4°, per la tesi, in una di queste tre Università o in quelle di Campo Grande (Brasile), Johannesburg (Sudafrica) o Ouagadougo u (Burkina Faso). Obiettivo del Corso, tenuto in Inglese e Francese, è una competenza multidisciplinare essenzialmente nel campo delle scienze sociali relative allo sviluppo sostenibile, con uno sguardo che abbracci sia il Nord che il Sud del mondo. A caratterizzare il Corso, un’attenzione a metodi di ricerca applicata che facciano propria la lezione di Crawford Holling: un rapporto tra approccio ingegneristico (basato sull’irrigidimento e sulla specializzazione dei sistemi territoriali per massimizzarne l’efficienza e per tenerli lontani dalle crisi) e un approccio resiliente (basato sulla flessibilità e sulla diversificazione di quegli stessi sistemi, per potenziarne l’efficacia e la capacità di superare le crisi assumendo nuove configurazioni) che, per aumentare il primo, non penalizzi troppo il secondo: cosa che invece si riscontra spessissimo nelle strategie e nei progetti di sviluppo relativi all’ambiente e al territorio, sia nel Nord che nel Sud del mondo, con il risultato finale di infragilire quegli stessi sistemi, riducendone la capacità di riproduzione autonoma ed aumentandone la dipendenza.
Per concludere, vorrei provare ad individuare due linee di ricerca che, secondo me, varrebbe la pena seguire oggi per quanto riguarda il rapporto tra società e risorse naturali nelle terre asciutte del Global South.
La prima riguarda caratteristiche ed effetti dell’intenso processo di espropriazione/appropriazione di risorse (“Land and water grabbing”) che sta avvenendo nelle terre asciutte della periferia da parte di operatori internazionali (imprese e fondi sovrani), sia per accedere al nuovo mercato globale delle “3 F” (Food – Fodder – Fuel) sia per costituire/rafforzare la propria base fondiaria di capitalizzazione.
La seconda si rivolge agli effetti della “crisi ambientale del Global South”, ascrivibile all’interazione complessa tra fattori naturali e antropici, con approccio multiscalare (per intenderci: dal Climate Change all’erosione legata ad un diboscamento locale) su movimenti/espulsione di popolazione: la questione dei “Profughi ambientali” nello specifico delle terre asciutte.