Pisa, ottobre 2018
Discorso del Vincitore del Premio Galilei
Signore e Signori!
Ringraizio con gtatitudine il premio che la Fondazione Galileo Galilei ha voluto assegnarmi. Sono molto fiero di questo riconoscimento con cui le mie ricerche svolte da molti anni nel campo della storia del pensiero italiano vengono apprezzate.
Mi permetto di rievocare che sul piano soggettivo le prime radici di tale lavoro risalgono all’autunno del 1956, ai giorni della rivoluzione ungherese, quando per i combattimenti e le coseguenze di essi la nostra scuola rimase chiusa, e io avevo passato le mie giornate forzatamente libere con il leggere una bella traduzione ungherese della Divina Comedia, che ho trovato nella biblioteca dei miei genitori. Qualche anno dopo, facendo i primi passi di familiarizzarmi con la lingua italiana, mi mettevo a leggere il Breviario di Estetica di Croce e Il fu Mattia Pascal di Pirandello, cercando disperatamente capire qualcosa.
Nei decenni che sono passati da allora, mi ero occupato di diversi campi e problemi della filosofia, fra l’altro della filosofia del linguaggio, ma l’interesse che portavo dall’inizio a ciò che che si chiama “pensiero italiano” o “filosofia italiana”, rimase permanente.
Qui ci si imbatte subito nella questione se esiste veramente una filosofia italiana, o in senso piú largo, un pensiero che sia specificamente italiano. Questo evidentemente è solo una versione di un problema molto più generale che si riferisce al rapporto tra nazione, nazionalità e filosofia: esistono in fondo filosofie nazionali? È facile vedere che tale questione scaturisce dalla pretesa di universalità della filosofia, cioè dall’assunzione che un pensiero è determinato esclusivamente dalle sue condizioni di verità, indipendentemente da chi lo pensa, quando, dove, e in che lingua lo pensa.
Ciò invece, come fra molti altri autori Giovanni Gentile (professore a vari titoli per lunghi anni a Pisa) ha dimostrato, vale non solo per il pensiero filosofico, ma per il pensiero come tale. Gentile ha formulato questa tesi così: “né la filosofia, né la scienza, né l’arte, né la religione hanno, a rigore, aspetto nazionale; e ogni trattazione orientata secondo distinzioni politiche non può non apparire fondata su criteri arbitrari, empirici e pericolosi”. In altre parole, qualsiasi pensiero, in quanto pensiero, può essere trattato dal punto di visto nazionale solo secondo criteri ingiustificabli e non pertinenti al mondo dello spirito.
Ciononostante quasi tutti accettano che esistano filosofie nazionali e, per conseguenza, esista una filosofia italiana. Al livello quotidiano questo può essere confortato dall’argomento empirico, ma potente, che in Italia, da secoli, molti grandi pensatori avevano coltivato la filosofia e varie discipline di essa. Alla luce di tale approccio quotidiano la filosofia italiana è semplicemente la totalità quantitativa delle opere filosofiche scritte dagli italiani.
È evidente però che il rapporto tra le filosofie nazionali e la filosofia in genere solleva un problema più generale: quello del rapporto tra particolarità e universalità. I due poli in senso logico non si escludono mutuamente? Se si escludono, allora la particolarità nazionale perde la sua ragion d’essere e solo il pensiero di pretesa universale va accettato come filosofia.
A questo punto molti propongono la soluzione secondo cui, visto che il pensiero si nutrisce dalla vita e dall’esperienza, anche i pensieri a pretesa universale appartengono necessariamente a una data prospettiva. Non è dunque lecito assumere una contraddizione inconciliabile tra i due poli. Anche se è ristretta e parziale la prospettiva che è determinata dalla nostra appartenenza a una nazione, a una epoca storica e a una tradizione culturale, è solo mediante essa che possiamo avere accesso al mondo delle validità universali.
È in fin dei conti il concetto della tradizione che è decisivo in questo contesto. La tradizione altro non è che la continuità storica del pensiero che ovviamente non deve essere lineare. Si pensi per esempio al nesso che, attraverso i secoli, collega intellettualmente il napoletano Benedetto Croce del novecento con il napoletano Giambattista Vico del settecento, in modo che il primo, interpretando e ricostruendo fedelmente le idee del secondo, ne fa anche un uso originario e le incorpora nel proprio progetto filosofico.
Non c’è ragione per cui non dovremmo accettare la soluzione alla quale abbiamo accennato prima. Da essa, però, nascono altre e nuove questioni sulle filosofie nazionali e particolarmente su quella italiana. Soffermiamoci finalmente su questa ultima.
Alla luce dell’enorme produzione filosofica che dal tardo medioevo al settecento nacque in Italia, potremmo dire che l’Italia aveva dato asilo alla filosofia in un senso universale e non solo nel senso di una filosofia nazionale, cioè, italiana. Da Bertrando Spaventa al Giovanni Gentile molti pensavano così. Questo ci porta all’interpretazione che le idee fondamentali che, via il cartesianesimo e la filosofia classica tedesca, costituirono il nucleo del pensiero moderno, si ritrovano nelle opere degli antecedenti filosofi italiani.
Dunque, se anche in Italia guadagnano terreno il kantiansmo e lo hegelismo, e per questo si fa l’impressione che la filosofia italiana, perdendo la sua originalità, divenne una imitazione delle scuole straniere, allora tutto questo non significa altro che i pensieri, nati originariamente in Italia, tornano finalmente a casa. Nel mezzo dell’ottocento, dissertando su Hegel, Bertrando Spaventa ha espresso questa idea così: “il pensiero filosofico italiano non fu spento sui roghi de’ nostri filosofi, ma mutò stanza, e si continuò in piú libera terra e in menti piú libere; talché il ricercarlo nella nuova sua patria non è una servile imitazione, ma la riconquista di ciò che era nostro.”
Ma, come Eugenio Garin il grande storico della filosofia (pure lui un professore della Scuola Normale Superiore) ha osservato, in altra luce questo può essere ridotto all’affermazione che i filosofi italiani furono i precursori delle tendenze moderne della filosofia europea. Da ciò consegue che ai filosofi dell’età d’oro della cultura italiana si può attribuire più il ruolo di aver preparato il terreno per le ide moderne che il ruolo di aver forgiato delle idee importanti e compiute in sé stesse. Tale approccio, cioè l’accentuare il ruolo di precursore, esprime una interpretazione diffusa del carattere della filosofia italiana. Non devo dire come insufficiente sia questa interpretazione.
Dall’accettare l’esistenza di diverse filosofie nazionali nasce immediatamente un problema ulteriore: che cosa le rende individuali e quali sono le caratteristiche costanti nella loro storia? A un tale quesito è difficile dare una risposta di merito. Di “empirismo brittanico”, di “razionalismo francese”, o di “idealismo tedesco” si può parlare semmai nel contesto di una epoca storica ben determinata.
Negli ultimi decenni la filosofia italiana, e la cultura italiana in generale, venivano caratterizzate frequentemente nel senso che esse sono pervase prevalentemente dalla tradizione umanistica, e sono meno inclini ad accogliere le idee e i metodi che la moderna rivoluzione scientifica ha prodotto. Ma anche questa caratterizzazione, come le altre, vale solo per un certo periodo storico, e cioè per la prima metà del novecento in cui in molti settori della cultura italiana era in posizione dominante il neoidealismo che dal punto di vista scientifico può, o poteva, essere detto veramente conservativo. Altrimenti si deve dare ragione anche agli storici i quali affermano che il positivismo, e in genere la metodologia della ricerca empirica, ha le radici ugualmente nella tradizione filosofica italiana, soprattutto nei principi elaborati da Galilei.
Precedentemente mi sono riferito al neoidealismo in senso negativo. Queesto non significa che secondo me ai pensatori neoidealisti, e specialmente a Benedetto Croce, non si possa attribuire un messaggio che sia importante e rilevante anche dal punto di vista dei nostri problemi attuali. Mi permetto di dire in questa sede qualche parola su Croce di cui avevo modo di occuparmi diverse volte nel contesto dei miei studi sulla storia della filosofia italiana. Vorrei rilevare due temi: la sua filosofia della libertà e la sua tesi della contemporaneità della storia.
Nel 1941 un suo critico ungherese ha scritto che Croce “è del passato”, aggiungendo che “la sua opera appartiene a quella parte del passato che va conservata per il futuro”. Croce non dice cose “nuove” o “originali”; “ma dice le cose vecchie con tanta purezza e forza persuasiva che ci fa sentire l’eterno”.
All’epoca delle offensive politiche e ideologiche dell’irrazionalismo il suo sobrio insegnamento filosofico e il suo liberalismo coerente, e oltre a ciò, il suo professare “la religione della libertà”, avevano davvero un significato straordinario. Si poteva trovare nei suoi libri una bussola spirituale, anche se alla luce delle esperienze moderne il suo modo di vedere appariva forse eccessivamente conservatore.
Negli anni nefasti di allora molti italiani e figli di altre nazioni attingevano coraggio dall’esempio di uno dei maggiori pensatori dell’epoca che con fervore quasi religioso prese il partito della libertà. Credo che nella crisi politica, ideologica e culturale che stiamo vivendo in questi anni, i suoi libri danno conforto anche agli lettori di oggi. Ma oltre a ciò, si può ricavare da essi insegnamenti tuttora validi, mezzi intellettuali che ci rendono capaci a scoprire almeno alcune delle radici della nostra crisi e di tener testa ad essa. Una delle radici della crisi da denunciare è la confusione voluta e intenzionale tra i diversi concetti del liberalismo (come per esempio tra il neoliberalismo economico e il liberalismo come concezione etica, filosofica e politica). La battaglia contro il liberalismo, e contro la libertà, viene condotta a titolo di tale confusione.
Uno dei mezzi intellettuali di contrastare è la filozofia crociana della libertà. Il suo concetto della religione della libertà è in stretto rapporto con la distinzione tra liberalismo e liberismo, una distinzione che oggi dovremmo considerare più importante che mai, proprio perché anche molti liberali se ne sono dimenticati.
Se ciò che Croce chiama liberismo altro non è che la trasformazione in norma etica e politica del liberalismo puramente economico, il liberalismo in senso vero e proprio è invece una visione del mondo che accetta la pluralità delle forze e degli indirizzi, e si contrappone a ogni forma del pensiero autoritario. Qua visione del mondo, cioè qua religione della libertà, il liberalismo riconosce il valore della libertà come unico valore centrale. Gli antiliberali confondono deliberatamente questi due concetti e combattono il valore della libertà sotto la guisa di attaccare il liberismo. L’insegnamento crociano ci aiuta di capire quello che succede attualmente in Europa.
Credo che la tesi crociana della contemporaneità della storia, che è stata oggetto di molte discussioni e critiche, sia fondamentalmente vera e corretta, anche se esprime una verità paradossale. Infatti, essa non implica il rifiuto del nesso logico tra il concetto del passato e quello della storia. In altre parole, non segue da essa la negazione del fatto che la storia sia storia del passato. Il filosofo vuole dire semplicemente che la storia che è contemporanea è, sì, la storia del passato, ma è una storia del passato nel presente. Dall’altro lato egli ribadisce anche che una storia del presente non può essere nemmeno concepita. Aggiungo l’argomento che è così perché gli avvenimenti acquistano il loro pieno significato alla luce della totalità delle loro conseguenze postume che possono verificarsi in un futuro lontano. È soltanto alla fine della storia che si potrà conferire ad essi un significato definitivo. In conseguenza, accettare la contemporaneità della storia equivale a sostenere che gli avvenimenti del passato non sono in sé stessi compiuti, ma hanno una loro vita ulteriore nel nostro presente il che ci obbliga ad interpretarli alla luce di questo presente.
Se questo vale per la storia, vale ancora di più per la storia della filosofia. I pensieri, in quanto essi sono veri pensieri, non sono mai compiuti e chiusi in sé stessi. Ne fanno parte i proseguimenti e le interpretazioni ulteriori nel nostro pensare presente. Proprio per questo anche la storia del pensiero italiano è una storia contemporanea.
Per concludere vorrei dire che la verità, di cui sto parlando, è testimoniata dall’opera di numerosi filosofi italiani, nostri contemporanei fino a pochi anni fa, a qualcuno dei quali io devo anche personalmente molto. Sia lecito fare qualche nome tra quelli che, in un senso o in un altro, considero maestri: quello di Ferruccio Rossi-Landi, di Norberto Bobbio, di Mario Corsi, di Antimo Negri, di Girolamo Cotroneo, e dell’indimenticabile Umberto Eco che anche da filosofo era straordinario.